‘Foschia’ di Pignatelli
Anna Luisa Pignatelli giunge al secondo romanzo presso Fazi, in stretta continuità con il precedente lavoro anche solo per la forza dei titoli (da Ruggine a Foschia), costituiti da vere e proprie parole-tema che icasticamente sintetizzano le due opere, entrambe costruite attorno ad un torbido rapporto genitoriale d’ambientazione toscana: là gli abusi di un figlio disadattato sulla vecchia madre; qui, con scambio di ruoli tra aguzzini e vittime, il malsano legame tra una figlia (Marta) ed un padre (Lapo). Ma quella di Pignatelli è una “foschia” capace di ristagnare fino nelle pieghe più nascoste del romanzo. A cominciare dai due spazi principali della vicenda, Lupaia e Torre del Salto. Nel primo, Marta trascorre la sua fanciullezza col padre, la madre Teresa e il fratello minore Antonio. Un luogo isolato e immerso nella campagna che potrebbe garantire l’idillio radical chic di un carismatico storico dell’arte allievo di Bernard Berenson, di una pittrice eclettica e controcorrente e dei due figli. Ma Teresa non regge le angherie del distante Lapo: si ammala; muore. È lo spartiacque del libro. Marta e Antonio sono costretti a trasferirsi nella tenuta di Torre del Salto, dove Lapo costruisce una nuova famiglia con la ricca e gretta Dora e l’altrettanto anaffettiva figlia di lei, Clotilde. Un luogo costantemente ammorbato da una sorta di “velo lattiginoso che pareva l’alito di quella terra” e che Marta, appena ultimati gli studi, riuscirà finalmente ad abbandonare. La “foschia” diviene correlativo oggettivo dell’animo dei personaggi, in particolare di Lapo, tanto cólto quanto rapace, impossibilitato pertanto ad elevarsi moralmente nonostante la passione per l’arte. Un uomo che non vede (o non vuole vedere) la verità, fino a mistificarla attraverso false (e ben retribuite) attribuzioni di dipinti; soprattutto, un personaggio che mente alla figlia, cui la verità si svelerà in modo sempre più drammatico con lo scorrere delle pagine. Sono, dunque, anzitutto i rapporti tra i vari attori ad essere morbosamente ambigui. A cominciare da quello tra Lapo e Marta, che ne è attratta e ne asseconda gli sguardi, complice di un gioco che le sfugge di mano e che conduce alla scena cruciale del mancato incesto. Poi quello tra Lapo e Teresa, sempre più costretti entro i ruoli di aguzzino e di vittima; quello tra Marta e Antonio, inesorabilmente separati da un velo; infine quello, ancora più malsano, tra Antonio e Clotilde. Problematico appare pure il rapporto tra realtà e finzione, declinato in primis in un costante scambio tra arte e vita dal vago sapore decadente. La distanza tra i vari personaggi è spesso misurabile attraverso le loro passioni artistiche. Ed è un tratto che accompagnerà Marta anche nella scelta della sua professione di attrice di teatro, per la quale le emozioni e le sofferenze della vita le garantiranno autenticità sul palcoscenico. Quella stessa sincerità che la muoverà, giovane malata terminale, a raccontare alla figlia, attraverso una lettera lunga quanto il romanzo, la propria vicenda. Senza foschia.