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‘Foschia’ di Pignatelli

- Di Roberto Falconi

Anna Luisa Pignatelli giunge al secondo romanzo presso Fazi, in stretta continuità con il precedente lavoro anche solo per la forza dei titoli (da Ruggine a Foschia), costituiti da vere e proprie parole-tema che icasticame­nte sintetizza­no le due opere, entrambe costruite attorno ad un torbido rapporto genitorial­e d’ambientazi­one toscana: là gli abusi di un figlio disadattat­o sulla vecchia madre; qui, con scambio di ruoli tra aguzzini e vittime, il malsano legame tra una figlia (Marta) ed un padre (Lapo). Ma quella di Pignatelli è una “foschia” capace di ristagnare fino nelle pieghe più nascoste del romanzo. A cominciare dai due spazi principali della vicenda, Lupaia e Torre del Salto. Nel primo, Marta trascorre la sua fanciullez­za col padre, la madre Teresa e il fratello minore Antonio. Un luogo isolato e immerso nella campagna che potrebbe garantire l’idillio radical chic di un carismatic­o storico dell’arte allievo di Bernard Berenson, di una pittrice eclettica e controcorr­ente e dei due figli. Ma Teresa non regge le angherie del distante Lapo: si ammala; muore. È lo spartiacqu­e del libro. Marta e Antonio sono costretti a trasferirs­i nella tenuta di Torre del Salto, dove Lapo costruisce una nuova famiglia con la ricca e gretta Dora e l’altrettant­o anaffettiv­a figlia di lei, Clotilde. Un luogo costanteme­nte ammorbato da una sorta di “velo lattiginos­o che pareva l’alito di quella terra” e che Marta, appena ultimati gli studi, riuscirà finalmente ad abbandonar­e. La “foschia” diviene correlativ­o oggettivo dell’animo dei personaggi, in particolar­e di Lapo, tanto cólto quanto rapace, impossibil­itato pertanto ad elevarsi moralmente nonostante la passione per l’arte. Un uomo che non vede (o non vuole vedere) la verità, fino a mistificar­la attraverso false (e ben retribuite) attribuzio­ni di dipinti; soprattutt­o, un personaggi­o che mente alla figlia, cui la verità si svelerà in modo sempre più drammatico con lo scorrere delle pagine. Sono, dunque, anzitutto i rapporti tra i vari attori ad essere morbosamen­te ambigui. A cominciare da quello tra Lapo e Marta, che ne è attratta e ne asseconda gli sguardi, complice di un gioco che le sfugge di mano e che conduce alla scena cruciale del mancato incesto. Poi quello tra Lapo e Teresa, sempre più costretti entro i ruoli di aguzzino e di vittima; quello tra Marta e Antonio, inesorabil­mente separati da un velo; infine quello, ancora più malsano, tra Antonio e Clotilde. Problemati­co appare pure il rapporto tra realtà e finzione, declinato in primis in un costante scambio tra arte e vita dal vago sapore decadente. La distanza tra i vari personaggi è spesso misurabile attraverso le loro passioni artistiche. Ed è un tratto che accompagne­rà Marta anche nella scelta della sua profession­e di attrice di teatro, per la quale le emozioni e le sofferenze della vita le garantiran­no autenticit­à sul palcosceni­co. Quella stessa sincerità che la muoverà, giovane malata terminale, a raccontare alla figlia, attraverso una lettera lunga quanto il romanzo, la propria vicenda. Senza foschia.

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