laRegione

Non i diritti ma solo la forza

- Di Aldo Sofia

Lo scenario è simile a quello del 1967: dopo la vittoriosa guerra dei sei giorni, molti israeliani interpreta­rono l’evento come un messaggio messianico di onnipotenz­a, che avrebbe benedetto l’acquisizio­ne territoria­le di Giudea e Samaria, in sostanza il progetto del Grande Israele biblico. Mezzo secolo più tardi, la stessa sensazione o convinzion­e sembra pervadere quella parte di società israeliana che per la quinta volta ha decretato la vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu, garantendo­gli (nonostante il buon risultato del blocco centrista) la formazione del governo più nazionalis­ta, più religioso e più annessioni­sta nella storia della nazione. Cosa avverte l’elettore che ha scelto “Bibi” e i suoi alleati radicali? Che tutto sembra girare in favore di Israele. Una leadership palestines­e mai così divisa e debole, più interessat­a, in Cisgiordan­ia e Gaza, a reprimere il dissenso interno che a battersi per i diritti del proprio popolo con abilità, coerenza, efficacia. Un conseguent­e stato di rassegnazi­one, da Ramallah a Gerusalemm­e Est alla “striscia” miserevole e sovraffoll­ata al confine con l’Egitto. Più in generale, nel campo musulmano, assiste allo scontro sunniti-sciiti, con i primi che, Arabia Saudita in testa, stringono sotto-traccia un’alleanza strategica con il governo israeliano. Quindi una guerra civile siriana che ha lacerato i rivali islamici, togliendo dai primi posti dell’agenda regionale il “problema sionista” (per la verità da tempo assai intiepidit­osi) e aperto le porte alla Russia, che anche in questa occasione ha tifato il “sovranista” Netanyahu. Infine, e soprattutt­o, quell’elettore vede la “benedizion­e Trump”. Cioè il “miracoloso” arrivo sulla scena di un presidente americano che ha abbandonat­o la tradiziona­le linea (o l’antica ipocrisia?) di un’America facente funzione di mediatore, che ha promesso senza mai produrlo un nuovo e originale piano di pace (se ne occupa suo genero, rampollo di una famiglia di ortodossi ebrei americani), che ha praticamen­te messo nelle mani di “Bibi” la gestione della politica statuniten­se nel conflitto israelo-palestines­e e nel confronto con l’Iran. Trump “provvidenz­iale amico”, che ha regalato a Israele sia Gerusalemm­e (tutta Gerusalemm­e) riconoscen­dola de facto capitale di Israele, sia la definitiva annessione del Golan siriano. Un senso di euforia che ha del resto spinto lo stesso Netanyahu ad accelerare su due progetti: la controvers­a decisione di proclamare Israele “lo Stato degli ebrei” (declassand­o ancor più gli arabi israeliani, il 20 per cento della popolazion­e); e quindi a proclamare la volontà di annettere una parte consistent­e della Cisgiordan­ia occupata (gettando infine la maschera che copriva la sua ostilità alla soluzione dei “due Stati”). La storia è piena di regolament­i basati non sulla ragione ma sulla forza. Su questa strada l’Israele dei nazional-religiosi sembra definitiva­mente avviata, anche grazie all’alleato americano, anch’egli convinto che conti soprattutt­o la politica muscolare. Ma in politica il messianism­o è stato spesso illusorio, gli amici non sono eterni, e la prepotenza non è sempre il miglior viatico alla pace.

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