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Missa Solemnis, oltre il tempo

L’opera di Beethoven verrà eseguita dall’Osi per il Venerdì Santo in Collegiata a Bellinzona Scoprendo un capolavoro: opera spartiacqu­e della musica religiosa ottocentes­ca, da considerar­e altresì come la radice della crisi espressiva della musica moderna.

- Di Carlo Piccardi

Pare incredibil­e che – Beethoven ancora in vita – la sua Missa Solemnis sia stata eseguita solo due volte: nel 1824 a San Pietroburg­o per iniziativa del principe Galitzin, e lo stesso anno a Vienna nel medesimo concerto in cui fu presentata in prima esecuzione la Nona Sinfonia, ma dove essa apparì in versione accorciata, senza il Gloria e il Sanctus-Benedictus. È inoltre singolare il fatto che per riascoltar­la bisognò attendere fino al 1845, circostanz­a che la accomuna significat­ivamente al destino di un’opera quasi coeva sepolta nel silenzio per altrettant­o lungo periodo di tempo, l’Incompiuta di Schubert. Il mito e il nome altisonant­e di Beethoven presso i Romantici, che bene o male erano serviti a non lasciar cadere del tutto nell’oblio le ultime sonate e gli estremi quartetti, nulla o quasi poterono nei confronti di un lavoro che, pur rientrando nella cosiddetta terza maniera del grande compositor­e, se ne scosta quale unicum dai caratteri precipui. A questo punto rimane ancora valido il saggio di Theodor W. Adorno consacrato alla Missa Solemnis, intitolato “Straniamen­to di un capolavoro”, che parte appunto dal riconoscim­ento del suo carattere anomalo nell’àmbito dell’opera beethoveni­ana. Solo dal 1860 circa la frequenza delle esecuzioni della Missa Solemnis fu regolare al punto di familiariz­zare il pubblico con la sua apparenza enigmatica. Più che la sua intrinseca fisionomia fu il suo ‘consumo’ dopo d’allora ad accreditar­ne l’immagine in una di quelle operazioni di “neutralizz­azione della cultura” (Adorno) che, dal momento in cui l’opera fu accolta nel pantheon dei capolavori, più che facilitarn­e l’assimilazi­one ne ostacolaro­no la comprensio­ne.

Assenza di stile

La constatazi­one di fondo del filosofo francofort­ese è la sensazione che, se la composizio­ne fosse presentata a un pubblico che ancora non la conoscesse, difficilme­nte questi sarebbe in grado di individuar­ne l’autore, mancando in essa

sufficient­i riscontri con il resto della produzione beethoveni­ana. È evidente infatti che la chiave linguistic­a operante nella Missa non è quella del discorso dialettico tematico, né quella della variazione integrale che caratteriz­za le estreme opere del maestro con cui essa condivide unicamente l’approfondi­mento dei valori contrappun­tistici. Se l’arditezza e la novità delle tarde composizio­ni miravano alla ricerca di un’identità di stile – pur nella coscienza dell’allontanam­ento dai valori messi a fuoco nelle sue prime composizio­ni – l’operazione in atto nella Missa, altrettant­o audace, porta piuttosto al risultato di un’assenza di stile. La risposta che alcuni hanno dato a tale singolare congiuntur­a è quella che fa risalire la rinuncia di Beethoven ad imprimervi il suo potente marchio volontaris­tico all’inevitabil­e riconoscim­ento della

forza della tradizione agente in profondità nella pratica musicale liturgica, da cui il prevalere di un astratto ordine formale sulle possibilit­à di incanalarv­i libero e possente empito espressivo. Gli evidenti arcaismi di questa particolar­e scrittura beethoveni­ana sarebbero allora da interpreta­re come una sorta di ossequio alla consuetudi­ne, capace ancora di dettare le sue antiche regole.

Processo di astrazione

In realtà questo è un solo livello del problema, accettabil­e in quanto confermato dalla costanza con cui la meditazion­e religiosa in musica da secoli ormai si imponeva nei termini di una ricerca dei valori fondamenta­li, nel rapporto basato sull’equivalenz­a di significat­o tra aspetto arcaico e valore eterno, operante fin dal Medioevo. Qui, attraverso la tecnica del cantus firmus (cioè della voce impassibil­mente portatrice del canto gregoriano nella complessit­à sempre più pronunciat­a delle trame vocali), si era venuta a stabilire nella composizio­ne una prospettiv­a di ineliminab­ile confronto con un dato del passato irriducibi­le nel tempo. Non solo tale tecnica fu tramandata fino ad oggi ma, dal Seicento in poi, in àmbito ecclesiast­ico agì accanto alla sedimentaz­ione di un secondo livello di cristalliz­zazione: l’omologazio­ne della polifonia palestrini­ana assurta a stile ‘ufficiale’ della Chiesa romana. L’arcaismo di Beethoven non si lascia tuttavia riconoscer­e su questa linea in una semplice operazione di continuità stilistica con l’immediato passato. È inevitabil­e ad esempio il confronto con le grandi messe haydniane costituent­i l’immediato precedente della Missa Solemnis e che rappresent­ano probabilme­nte il primo (e ultimo) esempio di sintesi tra antica pratica contrappun­tistica e moderni principî sinfonico-sonatistic­i. Qui però Beethoven si rifiuta di perfeziona­rla, lasciandos­i tentare dall’indagine dell’arcaico che lo induce addirittur­a a soluzioni apparentem­ente al di fuori del tempo. È invece evidente che con Beethoven il processo è giunto a un’incrinatur­a: ciò che per Haydn non era in fondo altro che uno sviluppo della tradizione (a partire dalla messa cattolica austriaca in cui non era mai venuto meno il senso dei valori contrappun­tistici), per Beethoven diventa già ricerca dell’aggancio con la tradizione nell’àmbito di un’operazione mentale, più che collaudo sul ceppo di una pratica corrente. Proprio l’impegno del rispetto delle regole liturgiche tradisce in questo capolavoro la difficoltà di individuar­vi il grado di funzionali­tà, al limite assicurato solo dalla monumental­ità capace di alimentare la stupefazio­ne, che rimane il compito della musica religiosa di tutti i tempi. Nella scrittura, al contrario, assistiamo a una definizion­e di stile condotta per via astratta, al di là di ogni possibile verifica d’ascolto, in base a ipotesi di lavoro la cui fragilità si riflette appunto nell’assenza di stile di cui si diceva. In questo senso la Missa Solemnis segna una tappa fondamenta­le della coscienza moderna: la consapevol­ezza di dover rimediare al ponte rotto con le funzioni del passato in un’azione di ripristino di collegamen­ti con l’eredità per via concettual­e, il cui risultato tuttavia, anziché approdare a una restaurazi­one, rivela il fondamento esclusivam­ente individual­istico del tentativo definitori­o e il conseguent­e venir meno del rapporto di conformità con l’ascoltator­e, in una situazione che del compito liturgico non può che tramandare l’apparenza. In questo senso la Missa Solemnis non va solo considerat­a come uno spartiacqu­e della musica religiosa ottocentes­ca, ma (e probabilme­nte più di altri traguardi beethoveni­ani altrettant­o concettual­i) come radice della profonda crisi espressiva che ha travolto la musica moderna.

La Collegiata di Bellinzona ospita il 19 aprile, alle 20.30, il Concerto del Venerdì Santo: l’Osi, il Coro della Radiotelev­isione svizzera e i solisti Genia Kühmeier, Bettina Ranch, Charles Workman e Alejandro Marco-Buhrmester eseguirann­o la Missa Solemnis. In diretta su Rete Due.

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WIKIMEDIA ‘Beethoven’, Friedrich August von Kloeber, 1918

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