Di Maio fa (un po’) lo spavaldo
‘I nostri punti nel programma di governo, o non si parte’. Il leader del M5S alza la posta, poi l’abbassa
I Cinque stelle gettano acqua sul fuoco dopo le parole dell’ex vicepresidente del Consiglio. Il Pd chiede ‘un chiarimento’. Attriti sui decreti sicurezza.
Roma – All’ora di pranzo la strada per un accordo di governo Pd-M5S sembra in discesa, ma nel giro di mezz’ora si torna sulle montagne russe. È Luigi Di Maio ad alzare il tiro: «O siamo d’accordo a realizzare i punti del nostro programma o non si va avanti». Anzi, aggiunge: «Altrimenti, meglio il voto». Così il leader dei Cinque stelle gela i quasi alleati del Pd, uscendo dall’incontro con il presidente del Consiglio incaricato Giuseppe Conte, l’ultimo delle consultazioni a Montecitorio. I Democratici per un po’ restano interdetti, poi replicano con durezza: niente diktat e minacce. Netto il segretario Nicola Zingaretti: “Basta con gli ultimatum inaccettabili o non si va da nessuna parte”. E ricorda su Twitter: “Patti chiari, amicizia lunga”.
Altissima tensione quindi, tanto che viene annullato un vertice (tenuto segreto) tra lo stesso Zingaretti e Di Maio che era previsto per le 15. In pochi minuti la tensione schizza, il governo giallorosso è di nuovo in alto mare e sale pure lo spread (il picco a 176 punti, chiude la giornata a 170) mentre la Borsa scende. In serata è Conte che prova a mettere pace. Lo fa in una nuova riunione a Palazzo Chigi con i due partiti (senza i leader) e rinviando a un’altra in mattinata, per lavorare sul programma.
Proprio lì, almeno ufficialmente, si è incagliata di nuovo la trattativa. In particolare si profila lo scontro sui decreti sicurezza. Zingaretti, mezz’ora prima di Di Maio, riferisce ai giornalisti di aver proposto a Conte che su quei decreti fortemente voluti dalla Lega e ‘benedetti’ col voto dai 5S, si va «almeno» verso il recepimento delle indicazioni del presidente della Repubblica. Rilievi su più punti e di peso, da parte del Colle, su cui anche il Movimento apre. Ma «senza modificare la ratio di quei provvedimenti», aggiunge Di Maio scatenando le polemiche.
In ogni caso per il M5S, un eventuale accordo di governo prevede come «imprescindibili» i propri punti programmatici, ora per di più raddoppiati: dai 10 annunciati al Quirinale ai 20 proposti nella sala dei Busti al presidente incaricato. Sono i paletti intorno ai quali potrebbe nascere un Conte bis.
Su questo Di Maio calibra grammatica e tempi verbali: «Uso il condizionale perché, in qualità di capo politico, siamo stati molto chiari: o siamo d’accordo a realizzare i punti del nostro programma o non si va avanti». Che sia lui, ancora, il leader del Movimento, lo ripete una seconda volta quando ricorda che «da capo politico» ha rinunciato «due volte a fare il premier» e riconoscendo invece a Conte il ruolo di «super partes». Infine invoca le stesse parole usate da Conte accettando l’incarico con riserva: «Non è momento degli attacchi ma del coraggio e ne servirà tanto».
Ma i sospetti dei Dem in chiave anti M5S riprendono fiato e si moltiplicano. Anche sui decreti sicurezza. Non vanno rivisti? “Secondo me vanno abrogati”, tuona su Facebook il deputato Matteo Orfini. Gli fa eco Nicola Fratoianni di Liberi e uguali: «Andrebbero abrogati perché assai difficilmente si può rintracciare qualsiasi elemento di razionalità all’interno». Passano le ore e dal Movimento i toni si placano, fino quasi a rinnegare l’idea che vogliano far saltare il banco: “Cambio idea? Chiedere di abbassare le tasse significa cambiare idea? – scrivono in una nota –. Ribadiamo: contano le soluzioni, non le poltrone. E qui il punto è un altro: noi vogliamo cambiare veramente il Paese”. Il Pd non si fida. In una nota rilancia chiedendo “un chiarimento sulle dichiarazioni di Luigi Di Maio, al termine delle consultazioni”. Siano “precondizione per proseguire nel percorso avviato negli scorsi giorni”.
E la partita continua. Conte, forte dell’investitura, per ora tiene la barra dritta e procede in autonomia. Proponendo, secondo fonti parlamentari, a Pd e M5S di inoltrargli una rosa di nomi “credibili” per i ministri chiave nei confronti della quale farà poi le sue scelte, confrontandosi alla fine con il presidente Mattarella che su quei nomi deve metterci la firma. Con un nodo da sciogliere che sta condizionando anche la composizione del programma comune: quello di Luigi Di Maio come vicepresidente del Consiglio.