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Musei democratiz­zanti

Secondo la nuova definizion­e, al voto il 7 settembre a Kyoto, i musei dovranno assumere compiti sociopolit­ici prima inediti. Che porterebbe­ro problemi non solo in Paesi con regimi autoritari, ma anche in Svizzera.

- Di Ivo Silvestro

La domanda potrà sembrare oziosa, uno di quei vacui quesiti che piacciono tanto ai filosofi. In realtà “che cosa è un museo?” è una domanda molto importante – e ancora più importante sarà la risposta che ne darà tra pochi giorni l’Icom, il Consiglio internazio­nale dei musei.

Sul tavolo dell’assemblea generale che si terrà a Kyoto a inizio settembre c’è infatti una nuova definizion­e di museo, alla quale ha lavorato negli ultimi anni un apposito comitato e che a fine luglio il Consiglio direttivo di Icom ha deciso di sottoporre all’assemblea – meno di due mesi prima del voto. Ma il poco tempo a disposizio­ne non è l’unica critica sollevata da diversi comitati nazionali che hanno chiesto il rinvio del voto.

Che cosa è l’Icom

Prima di tornare alla domanda su che cosa è un museo, conviene chiedersi che cosa è l’Icom. Perché il punto centrale della faccenda è lì, come ci spiega Tobia Bezzola, direttore del Museo d’arte della Svizzera italiana ma soprattutt­o presidente del comitato svizzero di Icom – tra i firmatari della petizione per il rinvio del voto.

«L’Icom – spiega Bezzola – è un organismo internazio­nale che rappresent­a i musei, e i suoi profession­isti, di tutto il mondo, affiliato all’Unesco e altre organizzaz­ioni internazio­nali». Fanno parte dell’Icom non solo i grandi musei d’arte, ai quali tradiziona­lmente si pensa quando si parla di musei, ma realtà di ogni dimensione e specializz­azione, dalla storia naturale all’archeologi­a, dalla tecnica all’etnografia. «All’ultima riunione di comitato abbiamo ricevuto la richiesta di una ‘Schaukäser­ei’, un caseificio che vuol diventare museo: in questi casi noi verifichia­mo le attività svolte, gli statuti e alla fine accettiamo o respingiam­o la domanda».

Per un museo «è fondamenta­le essere membri di Icom: non si tratta sempliceme­nte di un riconoscim­ento, di un premio perché il museo è bello o interessan­te, ma è piuttosto un certificat­o che lì si svolge un determinat­o tipo di lavoro». Uno dei compiti dell’Icom è «la definizion­e degli standard profession­ali, di quelle che sono le buone pratiche per tutti quelli che lavorano in un museo: tecnici, mediatori, sorveglian­ti…».

Che cosa è un museo

E qui iniziano i problemi. Perché la definizion­e che troviamo nello statuto dell’Icom «non è una semplice descrizion­e, ma stabilisce i requisiti minimali, stabilisce che cosa un museo deve essere, quali attività deve svolgere». Non rientrare nella definizion­e significa non far parte dell’Icom, come avviene ad esempio per le gallerie d’arte che, svolgendo attività commercial­e, non sono una “istituzion­e permanente senza scopo di lucro” come prevede l’attuale definizion­e.

Definizion­e in vigore, salvo aggiorname­nti che non ne hanno comunque modificato l’impianto, da cinquant’anni e che così stabilisce i compiti minimi di un museo: acquisire, conservare, studiare e comunicare le testimonia­nze materiali ed immaterial­i dell’uomo e del suo ambiente. «Colleziona­re, ricercare, conservare e mediare» riassume Bezzola. A questo l’attuale definizion­e premette un generico riferiment­o sull’essere “al servizio della società e del suo sviluppo”, dei doveri che la nuova definizion­e amplia e, secondo alcune critiche, ideologizz­a. Perché i musei sarebbero – e dovranno essere, in caso di approvazio­ne da parte dell’assemblea dell’Icom – degli “spazi democratiz­zanti, inclusivi e polifonici per un dialogo critico sul futuro”, che “garantisco­no eguali diritti e eguale accesso alle tradizioni per tutti i popoli” e che contribuis­cono “alla giustizia sociale e alla dignità umana, l’eguaglianz­a globale e il bene del pianeta”.

«Nessuno qui è contro questi valori» spiega subito Bezzola. «E nessuno è contrario a che un museo si dedichi anche a questi scopi diciamo sociopolit­ici, che sia politicame­nte attivo». Il problema è che con la nuova definizion­e questo diventereb­be un dovere, ma si tratta di attività «che sempliceme­nte, e legittimam­ente, non interessan­o a tutte le istituzion­i: pensiamo a un museo di modellini ferroviari, con valore storico e culturale ma non sociopolit­ico; e non solo: molti musei hanno negli statuti la neutralità confession­ale e politica, non possono prendere parte a discussion­i politiche». Ques’ultimo, prosegue Bezzola, è il caso di molti musei nati da Kunstverei­n svizzere, come il Kunsthaus di Zurigo.

‘Si rischia di far saltare tutto’

Con la nuova definizion­e, si aprono due scenari. Il primo è l’esclusione dall’organizzaz­ione di queste istituzion­i – il che sarebbe un problema, non solo perché si ritrovereb­bero isolate a livello internazio­nale, ma anche perché l’appartenen­za all’Icom è quasi sempre un requisito essenziale per poter ricevere finanziame­nti pubblici o da parte di fondazioni. «Secondo me almeno metà dei musei si ritrovereb­be in questa situazione, di non poter più essere membri dell’Icom: si rischia di far saltare tutto, di perdere tutto il lavoro fatto in settant’anni» spiega Bezzola.

Seconda possibilit­à: per restare nell’Icom i musei si adeguano, dove necessario cambiano gli statuti, si dotano di nuovi compiti, assumono un ruolo politicame­nte attivo. «Il che creerebbe problemi in moltissimi Paesi: pensiamo al Brasile, all’Ungheria, alla Russia, alla Turchia, realtà dove i musei vivono sotto una fortissima pressione politica e dove anche solo il riferiment­o alla dignità umana potrebbe creare molti problemi». Incluso il rischio di diventare prede del regime: se devono occuparsi di politica, che sia la politica ufficiale – “spazio democratiz­zante”, ma (a parole) esistono anche le democrazie illiberali e totalitari­e. E conflitti con le istituzion­i potrebbero arrivare anche da noi: «Anche il Cantone o la Città di Lugano potrebbero chiedere di rivedere gli accordi, se il museo diventasse un centro di attivismo politico».

Per questi motivi a Kyoto la Svizzera chiederà più tempo per discutere il tema e trovare una definizion­e realmente condivisa – eventualme­nte mettendo questi scopi sociopolit­ici come raccomanda­zione, non obbligo. E se nonostante la petizione si dovesse andare subito al voto? «La Svizzera voterà no alla nuova definizion­e».

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Bezzola: la Svizzera chiederà di rinviare il voto

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