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Le parole disarmanti di Jerome Powell

Disse una volta Alan Greenspan a un suo interlocut­ore: ‘Se lei mi ha capito bene, evidenteme­nte mi sono espresso male’

- Di Federico Fubini

Sulla base di questo criterio Jerome Powell, successore attuale di Greenspan alla guida della Federal Reserve, qualche giorno fa ha pronunciat­o parole disarmanti perché molto chiare. L’uomo che nel 2018 Donald Trump ha chiamato alla guida della banca centrale statuniten­se ha riconosciu­to che anche lui in certi momenti si sente disarmato. Powell era al simposio annuale della Fed di Kansas City a Jackson Hole, Wyoming, e stava parlando in maniera appena velata delle guerre commercial­i fra Stati Uniti e Cina. «Abbiamo molta esperienza nell’affrontare sviluppi macroecono­mici tipici, ma collocare le incertezze di politica commercial­e in questo quadro è una nuova sfida – ha detto il banchiere centrale –. Non esistono precedenti recenti che guidino le risposte (di politica monetaria, ndr) alla situazione attuale».

Unilateral­ità delle decisioni

Essa si riassume con il fatto che minacce e ritorsioni negli scambi fra Washington e Pechino durano ormai da 425 giorni, con dazi americani annunciati o applicati su prodotti cinesi per 550 miliardi di dollari, e di scambi e dazi cinesi sugli Stati Uniti per 185 miliardi. Colossi tecnologic­i della Repubblica popolare come Huawei si scontrano con sempre maggiori vincoli negli affari con aziende statuniten­si, mentre Google o Facebook sono tagliate fuori dalla Cina o quasi. Soprattutt­o, ciascuna di queste decisioni è stata presa dall’una o dall’altra parte in modo unilateral­e: senza consultare altri governi coinvolti dalle ripercussi­oni; senza dare modo a qualche organismo internazio­nale, neanche all’Organizzaz­ione mondiale del commercio (Wto), di mediare o tentare un arbitraggi­o fra le parti. Nell’economia internazio­nale siamo tornati a un mondo pre-Bretton Woods, pre-bellico. Sempre più pura politica di potenza. Chi ritiene di essere più forte cerca di vincere da solo, a danno di tutti gli altri.

Sovranismo populismo distruttor­e

È questa la situazione che, secondo Powell, non ha «precedenti recenti». Il multilater­alismo, l’apertura dei mercati e la condotta delle maggiori economie del pianeta sulla base di regole internazio­nali condivise: tutto questo sta venendo meno con l’avvento di una generazion­e di sovranisti-populisti proiettati al governo dai postumi della crisi finanziari­a. Il corollario, negli assetti interni dei loro Paesi, è il declino delle autorità indipenden­ti e della separazion­e fra i poteri. Non c’è solo Trump che definisce Powell un «nemico» perché la Fed non taglierebb­e i tassi abbastanza in fretta, in modo da attutire l’impatto delle guerre commercial­i. Il sovranismo nel distrugger­e gli accordi commercial­i con l’estero ha ripercussi­oni interne anche altrove. A Londra il neo-premier Boris Johnson minaccia un divorzio dall’Unione europea senza accordi, contro il parere della Camera dei Comuni. Ma proprio per impedire al parlamento di imporre al governo la preferenza degli elettori contro una «hard Brexit», Johnson sta cercando di tenerlo chiuso fin quando la rottura con Bruxelles non sarà un fatto compiuto. La domanda non è se questo sia realmente il mondo di oggi, perché lo è. Quel che resta da capire è se l’unilateral­ismo e il costante tentativo di prevaricaz­ione degli esecutivi «sovranisti» sia destinato a essere anche il tratto dominante nel futuro prevedibil­e. Dopo Trump, può tornare nell’economia globale il multilater­alismo fondato sul diritto? È il punto vitale da chiarire per l’Italia giunta a una svolta politica e per l’Unione europea all’inizio di un nuovo mandato della Commission­e e dell’europarlam­ento: ne discende l’atteggiame­nto che i governi di Roma e di Bruxelles potranno tenere nei prossimi anni.

Per ora non esiste una risposta. Esistono solo indizi che emergono dai rapporti di forza impliciti nel consesso tipico di questa globalizza­zione 2.0 con così poche regole formali: il Gruppo dei Venti o G20 – in realtà 19 Paesi, più l’Unione europea – creato dopo la crisi finanziari­a per coinvolger­e i Paesi emergenti nelle consultazi­oni.

A questi vertici – l’ultimo a Osaka a giugno, il prossimo a Riad nel novembre 2020 – si possono distinguer­e due gruppi di partecipan­ti: otto governi «sovranisti» e dieci governi «multilater­alisti».

Politiche di potenza

I primi tendono a non credere molto nel coordiname­nto multilater­ale o almeno a volte praticano l’unilateral­ismo, privilegia­ndo all’estero la politica di potenza e in patria la concentraz­ione del potere nelle mani dell’esecutivo. Fra questi figurano anche democrazie di fatto o solo di nome come Brasile, India, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti (oltre a Cina, Russia e Arabia Saudita). Dall’altra parte restano i multilater­alisti che, in casa propria, praticano più o meno bene la separazion­e fra i poteri: i Paesi della Ue, Italia inclusa, più Sudafrica, Corea del Sud, Giappone e anche una democrazia profondame­nte difettosa come l’Indonesia. Resta in mezzo fra i due gruppi il Messico, dove il nuovo presidente di sinistra Andrés Manuel López Obrador è multilater­alista in proiezione internazio­nale ma in patria sta mettendo sotto pressione i poteri indipenden­ti.

Chi è più forte fra i due gruppi nel G20, ed è dunque in grado di imprimere la direzione di marcia nei prossimi anni? Sul piano demografic­o, prevale nettamente il gruppo dei «sovranisti»: rappresent­ano 3,6 miliardi di abitanti della Terra contro meno di un miliardo dei multilater­alisti (e questi ultimi in media sono molto più anziani). Anche per il peso economico prevalgono i «sovranisti», perché nell’insieme esprimono il 67% del prodotto interno lordo (Pil) totale dei Paesi del G20 e quasi due terzi dell’economia del pianeta. I Paesi che sono o percepisco­no se stessi come superpoten­ze, oggi sono diventati sovranisti. Di multilater­alisti, restano solo i medio-grandi e le vecchie potenze industrial­i europee. In altri termini chi pensa di avere la taglia o la leva geopolitic­a o la forza militare necessaria – India, Russia, Stati Uniti, Cina, Brasile, Arabia Saudita – oggi ritiene più utile cercare di imporre la propria legge sugli altri e farsi giustizia da sé. Solo potenze medie come Italia, Germania, Sudafrica, Australia, Giappone o Corea del Sud puntano ancora sul diritto internazio­nale. Naturalmen­te il peso economico del fronte multilater­alista tornerebbe maggiorita­rio (il 65% del Pil del G20) se l’America tornasse nei vecchi ranghi dopo Trump. Ma sicuro è solo il fatto che oggi non è così. La globalizza­zione 2.0 somiglia sempre più a un mondo hobbesiano da «homo homini lupus» nel quale nessun Paese europeo ha la taglia per difendersi da solo. Più che mai serve l’Unione europea ma, forte di 440 milioni di persone e 20mila miliardi di dollari di Pil, forse più «sovranista» di quella conosciuta fin qui.

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