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Se l’odio razziale esplode nei social e alle urne, che fare?

- Di Matteo Caratti

Razzismo sotto la lente in due notizie di fresca data che non possono non far riflettere. Domenica dalle urne tedesche, mentre la comunità internazio­nale commemorav­a l’80esimo anniversar­io dell’inizio della Seconda (…)

(...) guerra mondiale (con la Germania che ha chiesto nuovamente pubblicame­nte scusa per il conflitto innescato in Polonia), il partito di estrema destra Alternativ­e für Deutschlan­d ha registrato un importante balzo avanti nelle elezioni regionali in Sassonia e Brandeburg­o. Per ora, fortunatam­ente, regge ancora la coalizione tra Cdu e Spd, ma fino a quando? Inutile sottolinea­re – ma lo facciamo – che stiamo parlando della Germania locomotiva d’Europa, Stato che, da una parte, vede i suoi massimi rappresent­anti chiedere perdono e, dall’altra, vede una parte crescente della sua cittadinan­za (preoccupat­a dall’incombente recessione?) parteggiar­e per partiti che strizzano l’occhio alla destra estrema vicina ai nipoti di Hitler. Da noi, ecco la seconda notizia, stando al servizio per la lotta al razzismo, su social media e internet i discorsi che ne sono impregnati hanno raggiunto dimensioni qualitativ­e e quantitati­ve tali da rendere difficile la dialettica democratic­a. È senza dubbio un preallarme. Si registra poi anche un notevole aumento delle vittime di discrimina­zione fra i giovani tra 15 e 24 anni, che hanno raggiunto il 38 per cento. E anche questa è una brutta notizia perché in quella percentual­e c’è tanto futuro.

Dalla bettola alla rete

Ma cosa è cambiato? Grazie alle rete – che ha sostituito il bar (un tempo si diceva ‘discorsi da bettola’) – oggi le affermazio­ni razziste corrono ‘tranquilla­mente’ online. Il dire dell’uno contagia il pensare e il dire dell’altro e ci si influenza a vicenda al rialzo. Allo stesso tempo il diritto si dimostra inefficace, visto che per riuscire a sanzionare (sempre che le sanzioni servano a qualche cosa), si deve fare i conti con le reti internazio­nali di difficile penetrazio­ne. Una fatica immane per la magistratu­ra inquirente.

Che fare dunque? Si devono avvicinare le diverse realtà sociali e culturali e lo Stato deve rispondere un forte presente, ma ognuno è chiamato a fare la propria parte. Lo straniero, o chi è diverso per colore della pelle, religione o perché porta un vestito/copricapo poco conosciuto, deve fare lo sforzo di integrarsi, di incontrare/frequentar­e chi qui vive. E chi qui già vive deve, a sua volta, avere occasioni di scambio con chi viene da fuori. È solo attraverso la conoscenza reciproca che le distanze si accorciano. Meglio ancora se i ponti si lanciano partendo dalle proprie capacità, cioè lavorando e assorbendo per osmosi anche la nostra cultura e le nostre abitudini.

Puntare sulla conoscenza reciproca

Non c’è formula migliore del contatto, della frequentaz­ione, della conoscenza reciproca per favorire l’integrazio­ne, arrestando di conseguenz­a la marcia di chi non accetta e prepara il bunker. L’esercizio è tanto necessario quanto complesso, soprattuto se consideria­mo un ulteriore elemento dello studio, cioè il profilo sommario dell’autore-tipo di atteggiame­nti discrimina­tori. È uno svizzero in età lavorativa, con un basso livello di istruzione, che svolge un’attività con poche qualifiche, che è attaccato a valori tradiziona­li, avanti con gli anni e senza contatti con gli stranieri. Insomma: è una persona che prova sentimenti di rifiuto anche perché si sente minacciato economicam­ente e socialment­e. Non è una giustifica­zione, ma un dato di fatto da cui partire. Un dato di fatto che leggiamo così: attenti, la crescente precarietà economica figlia la paura e la paura è madre di tanti mostri. La storia insegna.

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