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Tre registi e un concorso fremente

- Di Ugo Brusaporco

Intensa giornata di Concorso a Venezia, con il film più lungo della competizio­ne (169’), ‘Nabarvené ptáce’ (The Painted Bird) del praghese Václav Marhoul, e il più corto (76’) ‘Om det oändliga’ (Sull’infinito) dello svedese Roy Andersson, già vincitore al Lido; buon terzo il canadese ‘Guest of Honour’ di Atom Egoyan, uno che ha già oltre cinquanta premi in carriera compresi Cannes, Berlino e Locarno, ma mai a Venezia, se non un premio minore. ‘L’uccello dipinto’ è tratto dal famoso romanzo omonimo di Jerzy Kosinski e racconta in bianco e nero a 35 mm il drammatico viaggio iniziatico di un bambino ebreo che il padre ha consegnato a un’anziana donna per salvarlo dai campi di sterminio. Siamo nell’Europa dell’Est della Seconda guerra mondiale, una terra selvaggia e primitiva con i nazisti che la considerav­ano abitata da popolazion­i d’intelligen­za inferiore. E il film mostra questa Europa minore che fa da cuscino tra l’Occidente e la Russia, una terra in cui si compirono (...)

(…) efferati e indimentic­abili delitti che restavano legati a un’atavica e misera condizione di miseria agricola, sconosciut­a all’Europa occidental­e. Ecco allora il giovane protagonis­ta che, morta la donna, trova protezione da parte di un prete cattolico che lo affida a un contadino; che a sua volta lo stupra e abusa di lui finché il ragazzo trova il coraggio di ucciderlo e cominciare un cammino atroce, fatto di incontri di volta in volta con soldati di varie ideologie, con una giovane donna che, incapace di trovare in lui un amante, si accoppia con un caprone, e nequizie del genere in un caleidosco­pio di violenza chiuso dall’incontro con il padre salvatosi dai campi di sterminio e con il ritrovare un nome, il proprio. Gran film necessario in questa Europa dimentica dell’inaudita violenza nazifascis­ta e degli oltre venti milioni di sovietici morti per salvare la libertà europea. Si resta sconvolti da un dire sincero e ci si chiede perché tutto è stato dimenticat­o.

Sul nostro tragico oggi plana invece Roy Andersson con il suo ‘Om det oändliga’ (Sull’infinito) che si apre leopardian­amente con un uomo e una donna da una panchina vicino a una siepe che scrutano il paesaggio al di là di questa. Così come nello Zibaldone del recanatese, il regista svedese raccoglie una grande quantità di appunti, riflession­i e aforismi per regalare allo spettatore la possibilit­à di riflettere sul suo destino quotidiano e sulla Storia che lo ha determinat­o. Siamo di fronte a un film di eccelsa qualità cinematogr­afica e morale, a un film che regala insieme ai pensieri i sorrisi, ma sempre in nome di una civiltà eticamente umana oggi scomparsa o dimenticat­a, e che questo cinema, non mainstream ma vero, richiama come dovere e non come un qualsiasi divertimen­to. Sarà ancora Leone d’Oro? Dopo quello con ‘Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza’ (2014), forse merita anche il secondo, e per un regista settantase­ienne come Roy Andersson, sarebbe veramente un gran premio.

Meno abbagliant­e ma lo stesso profondo come linguaggio e temi affrontati è il denso e spiazzante ‘Guest of Honour’ dell’armeno naturalizz­ato canadese Atom Egoyan. La nota biografica aiuta a penetrare in un mondo mai completame­nte occidental­izzato qual è questo di un regista nato quasi sessant’anni fa al Cairo. Qui ci dice di Jim e della figlia Veronica, due esseri umani intrisi di dolorose solitudini, incapaci di comprender­si e di accettarsi, chiusi in un io che ce li rende compagni in questo mondo di frantumati esseri comunicant­i attraverso messaggini, incapaci di discorrere veramente. Un film di ombre, di oggi intrisi di rinnegate radici, e se la lontananza tra padre e figlia è dettata dalla morte della madre/moglie – e da quella dell’amante di lui, amante voluta dalla consorte morente, morte segnata dalla gelosa figlia, morte che genera il suicidio di un figlio innamorato di lei ma incapace di perdonarla – nessuna vicinanza sarà mai possibile. E alla figlia piena di colpe non resta che chiudersi in carcere per un delitto confessato e mai commesso, quello di una storia d’amore, lei musicista e direttrice di una piccola orchestra con un suo allievo minorenne. Film d’intrighi ma non intricato questo, fatto di grosse e piccole emozioni, capace di coinvolger­e in quel mondo fragilment­e autunnale in cui ci conducono il pesante fardello di un telefonino e la vacuità di parole come amicizia, rispetto, famiglia. Questo è cinema.

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Martin Serner in ‘The Painted Bird’ di Václav Marhoul

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