La lingua ortopedica
Secondo Eraldo Affinati l’italiano è anche “lingua ortopedica”. Può assolvere la funzione di protesi (...)
(...) offrendo gli strumenti per ricostruire un paesaggio interiore, dare forma ai grumi emotivi che abitano chi non ha voce, o lingua, per tradurre l’emozione in esperienza, riannodare il passato al futuro. Lui lo ha sperimentato, giorno dopo giorno, in anni di accoglienza a giovanissimi immigrati, spesso sprovvisti di tutto; della storia che ogni genitore consegna a un figlio, delle parole per nominarsi, dire ciò che avevano attraversato, prima di arrivare lì, nell’aula di una metropoli europea. L’italiano ortopedico, allora, edifica e graffia. Da un lato compone, monta l’uno con l’altro i tasselli di un organismo, la lingua, generatore di senso e di vita; dall’altro offre gli strumenti per grattare la crosta di emozioni sedimentatesi fino a indurirsi come pietre, giungere parola dopo parola alla loro sorgente, far sgorgare una stilla di sangue.
Ogni parola, ogni storia, ogni percorso di ricostruzione – quale che sia stato lo scompaginamento che lo ha preceduto – richiede però un tempo. Che spesso, con le migliori intenzioni, non sappiamo rispettare; né con i ragazzi venuti da altri mondi, né con quelli cresciuti nel nostro. Allevati alla dottrina dell’efficienza, ai nostri chiediamo risposte e risultati, meglio se preconfezionati o standardizzati, negando lo spazio proficuo del dubbio, del passaggio a vuoto, dell’errore foriero di consapevolezza critica. Agli altri – che magari hanno alle spalle viaggi lunghi anni, attraverso sabbie e mari, centri di detenzione e di accoglienza, speranze e violenze – chiediamo subito di sentirsi parte di qualcosa, di raccontare e di raccontarsi, se non con le parole almeno con le immagini. In entrambi in casi, val forse la pena chiedersi per chi lo facciamo: per loro o per noi? L’esperienza descritta da Affinati (e ripresa nel suo ultimo libro, ‘Via dalla pazza classe’) risuona forse in tutti coloro i quali, in qualsiasi contesto educativo, si sono avvicinati disarmati a un giovane, per provare a regalargli gli strumenti con cui andare in cerca della propria verità; le risorse, i talenti, la sensibilità che sono stati consegnati a lui e a lui soltanto. Da qui, forse, inizia il lungo tragitto di ogni ragazzo destinato a diventare protagonista, e non spettatore, della propria storia, per riannodare in modo consapevole il passato al futuro, facendo propria ogni cicatrice. Un viaggio per cui non basta, a volte, un’intera vita. Educare è ferirsi, sostiene Affinati. Nell’esercizio, o forse nel dono, che lui descrive c’è qualcosa di sacro e di struggente, in cui si condensa la responsabilità di ogni essere umano nei confronti di chiunque arrivi dopo di lui. Nel suo caso – a contatto con quei ragazzi che hanno fatto a ritroso il viaggio di Marco Polo oppure attraversato il deserto, soli e ignari di ciò che li attendeva, sovente analfabeti – fornire un vocabolario, regalare la risorsa di una grammatica anzitutto interiore e la libertà di farne uso, per costruire e per graffiare, senza chiedere né attendersi nulla. Avvicinandoli come si farebbe con la rosa del Piccolo principe, dispersa nello spazio siderale, aggrappata alle proprie radici e difesa da poche fragili spine.