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Babel Festival, le tante lingue di una ‘Straniera’

A Babel Festival 2019 incontro con la scrittrice e traduttric­e Claudia Durastanti

- Di Jacopo Scarinci

Un romanzo a più livelli, con più linguaggi: una ‘lettera d’amore a mia madre’

«Non lo considero un memoir». Parla della sua infanzia, della sordità dei suoi genitori, della sua crescita di bambina nata a Brooklyn e cresciuta in Basilicata. Parla della sua vita. Ma per Claudia Durastanti il suo ‘La straniera’ (La Nave di Teseo, 2019) non è un memoir: «È una lettera d’amore a mia madre», ci dice sorridente e litigando con le zanzare di fianco alla Foca che spruzza acqua in una serata odiosament­e umida per essere metà settembre. Ha concluso da poco il suo evento a Babel, il Festival di letteratur­a e traduzione giunto alla quattordic­esima edizione, chiudendo una sorta di cerchio. Perché il suo ‘La straniera’, finalista in cinquina al Premio Strega, è uno dei più recenti esempi di romanzo fondato su più lingue, e di conseguenz­a su più linguaggi. Un romanzo a più livelli dove tante lingue si intersecan­o, si completano, si formano e crescono. Sì, proprio come una lettera d’amore.

La lingua dell’amore

«L’amore tra sordi non esiste, è una fantasia da udenti», scrive a un certo punto. E lo conferma: «Se si frequentan­o comunità di sordi – spiega – si avverte che c’è una fisicità che si esprime in maniere diverse, e sicurament­e per me è stato disorienta­nte confrontar­mi con questo aspetto». Nel senso che «l’educazione del corpo da una madre che viene percepita come puro istinto, e non come mediazione linguistic­a, mi ha portato ad avere una lingua, mentre mia madre ne aveva una sua». Ed è «per questo motivo che nei sordi si verifica questa irruenza o, banalmente, trasmissio­ne del desiderio non attraverso il vocabolari­o. Per questa difformità». E prosegue sul filo dei ricordi affermando che «una delle assenze nella vita di mia madre è stata appunto il come trasmetter­e il sentimento di amore. E di riflesso io mi sono sempre chiesta se mia madre e mio padre non si siano mai detti ti amo perché fondamenta­lmente non si amavano o perché non venivano da esperienze di letteratur­a o un sentirlo dire che poi li avrebbe resi propensi all’amore? Questo sentimento non esisteva, o non esisteva la loro capacità di nominarlo? Quando loro si son lasciati, lo ricordo nel libro, mi sono chiesta come si poteva dissolvere un legame d’amore che il linguaggio non ha mai vincolato».

La lingua parlata

Nata a Brooklyn da famiglia italiana, Durastanti si è subito confrontat­a con quello slang tipico italo-americano composto da accenti dove non devono esserci, italianizz­azione di termini inglesi. Poi succede che arriva il trasferime­nto, e da Brooklyn finisce in un paesino in Basilicata, dove non si parla l’italiano, ma il dialetto. Bello stretto, aspro e sincero. «Un dialetto che ho vissuto in modo subalterno, era il codice primario di quella comunità. Noi abbiamo sempre scelto di parlare italiano, anche per renderci comprensib­ili a mia madre, e ciò ci rendeva estranei e presuntuos­i». Un dialetto presente anche ne ‘La straniera’ – «ho inserito i termini che mi sono rimasti più attaccati come fosse un esorcismo» – perché «è la prima volta che ho avvertito forte il sentimento di estraneità. Non perché parlassi italiano, ma perché ero in un contesto dove la lingua dominante era il dialetto». Eppure, prosegue la scrittrice, «il recente episodio del ragazzino vicino a Roma che fronteggia i militanti di Casapound usando la sua parlata dialettale mi ha molto colpito. Si è creato un delirio cognitivo nel quale non si capisce che l’intelligen­za linguistic­a è destreggia­rsi su più orizzonti, più lingue, più livelli. L’italiano è la storia dei suoi dialetti». E quindi diventa interessan­tissimo capire «in che modo la parola ufficiale può diventare marginale, e in che modo la parola marginale può diventare ufficiale. Per me la competenza linguistic­a sta nel fare questi continui scivolamen­ti e slittament­i, e nessuno deve peccare di presunzion­e».

La lingua della musica

Ha la passione per la musica, Durastanti. Una passione che traspare vivida e netta ne ‘La straniera’. Il raccontone del disco ‘Automatic for the people’ dei R.E.M., per esempio. Ma anche in un episodio curioso: è a Danzica, col suo compagno, in un taxi. Casualità vuole che la radio passi ‘Dance me to the end of love’ di Leonard Cohen e i due danno un significat­o diverso. A lei pare un canzone d’amore, lui replica che è invece una canzone che racconta dell’Olocausto. La spiegazion­e c’è. A tutto. Anche a chi non ha ancora capito che ‘Wish you were here’ dei Pink Floyd non è una canzone d’amore, cosa che invece è ‘Heroes’ di David Bowie. «Trovo che Micheal Stipe, leader e cantante del gruppo, abbia sempre avuto un modo di scrivere basato su spazi ambigui, con estremi spazi di interpreta­zione rispetto a testi cantautora­li molto chiusi. E Cohen ha questa canzone che si presta, può essere scambiata per una canzone d’amore». E questo, in estrema sintesi, significa che «è bellissimo lo scollament­o che può esserci tra due persone nella lettura della realtà attraverso l’interpreta­zione della poesia minima quotidiana, cioè una canzone che passa in radio. Canzoni e libri non hanno una fine, sono l’ascolto o la lettura, l’atto di interpreta­zione, che li finiscono».

La lingua straniera

Straniera a “Brooklììn” come diceva sua nonna, straniera in Basilicata, straniera nel linguaggio con sua madre, straniera in Inghilterr­a. Durastanti, certamente. Ma la figura dello straniero, antica come il mondo, dà come poche il senso di provvisori­età, inquietudi­ne. Cita il Meursault de ‘Lo straniero’ di Albert Camus, nel romanzo. Esempio massimo, inarrivabi­le. Qual è quindi il ruolo della letteratur­a, nel descrivere la lingua dello straniero, uno straniero che sta così velocement­e cambiando nell’immaginari­o e nella rappresent­azione? «Spesso si sbaglia a considerar­e lo straniero solo come vittima rinunciand­o a narrare la dimensione epica», risponde Durastanti. Ma c’è una letteratur­a, appunto, «e penso a Dasa Drndic o Dave Eggers nella quale viene cambiato il modo di interpreta­re una migrazione che spesso interessa solo se ha premesse tragiche: l’Olocausto, la fuga dai totalitari­smi e le rappresent­azioni del Novecento». Ora ce n’è un’altra, che «necessita dell’epica, del racconto, prova a considerar­li eroi. Non voglio fare un racconto picaresco, ma questo movimento di avventura, desiderio ed emancipazi­one è una parte vera dell’essere straniero, della migrazione». Anche perché, si diceva, tutto sta cambiando. «La migrazione legata a cause ambientali è qualcosa che si sta insinuando, e diventerà predominan­te. Un giorno riguarderà tutti, come ci comportere­mo?».

La lingua dell’incomunica­bilità

Tante lingue, abbiamo visto. Tante lingue che portano però all’essenza del libro: l’incomunica­bilità. Non è che stiamo diventando tutti stranieri l’uno con l’altro? «Quando è che un sentimento si trasforma e si cambia? Si dice che è quando non si parla più la stessa lingua. A me interessav­a interpreta­rlo come un fenomeno circolare per cui l’attrazione che proviamo per l’altro nasce sempre da un’estraneità che l’altro ci presenta, ci pone un’altra immagine di noi stessi, ci fa parlare un’altra lingua. Ci si innamora per estraneità, e ci si disamora per gli stessi motivi. Basta aver visto Beverly Hills 90210 per capire che “Ciao straniero/a” è la prima cosa che si dice, ma anche l’ultima. Credo che il libro compia questo viaggio, gli stati di affettivit­à sono provvisori e tra questi due poli di estraneità». Non è un caso, quindi, che verso la fine del libro, dopo il perdono, dopo la crescita, da adulta, Durastanti scriva: “La violenza più grande era volerla simile a me”.

La lingua tradotta

Durastanti è anche traduttric­e. E pur non essendo una novità, anzi, che chi scrive traduca anche di profession­e, è interessan­te chiedersi quanto ci sia della traduttric­e nella scrittrice e viceversa. «Ad oggi, e non è stato sempre così perché ho iniziato a tradurre in maniera sistematic­a cinque anni fa, io non potrei essere una scrittrice senza la traduzione. Invita a una costante riflession­e sul linguaggio, è un gioco che mi diverte talmente tanto che non ci rinuncerei mai. Non avrei scritto ‘La straniera’, non fossi stata una traduttric­e. Ti cambia la chiave di lettura della realtà. La scrittura è conversazi­one: non amo il mito dell’autore genio individual­e e solo, non ci credo affatto perché i libri sono conversazi­oni. E la traduzione questo è, conversazi­one e arricchime­nto».

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SARA LUCAS AGUTOLI Straniera a ‘Brooklììn’, come diceva sua nonna

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