La sacra libertà di disporre di sé?
Segue da pagina 15 (...) ci appartenga e che per conseguenza, con la stessa, possiamo fare ciò che vogliamo. Affermazione vera per ciò che riguarda aspetti ovvi, importanti o superficiali del nostro vivere, ma che diventa non più ovvia e superficiale quando si tratta di far terminare questa vita. Una vita che – questo viene ammesso dall’autore – inizia senza la nostra partecipazione e volontà. A meno che, aggiungo io, si voglia intravedere
una volontà propria dell’ovocita nell’incontro con lo spermatozoo, teoria che sarebbe molto azzardata e che nessuno mai proporrebbe. No, nel nostro esserci c’entriamo solo per l’esserci come tale ma non per il nostro voler esserci. L’affermazione di Martin Heidegger che veniamo “gettati” nel mondo – come oggetti seppur con amore e intenzione di altri – è più che mai pertinente ed esclude una nostra volontà in questo processo. Cosa che, secondo me, contiene già un messaggio naturale che riguarda il termine della nostra esistenza poiché la stessa non appartiene solo a noi. Fosse anche (solo) perché c’è un contesto, un mondo, una legge di natura che rende innaturale immischiarci e determinare questa fine. Ma veniamo al tasto più doloroso di questa discussione: la malattia, la sofferenza delle quali del resto si tratta. Temi che non possiamo “liquidare” con un permesso con con la categoricità un o non giusto permesso o non che giusto, ci e tantomeno trasmette l’autore dell’articolo. Perché la libertà di disporre di sé qui c’entra in effetti poco. Molto c’entra il dilemma che è anche sofferenza, molto c’entra il processo come tale che ti porta ad attraversare il confine tra la vita e la morte e che sì, va altamente rispettato. E che non significa l’iniezione o il bicchiere che ti porta subito oltre il confine. Non ho trascorso la vita solamente in congetture filosofiche e lotte politiche ma in giorni e notti d’ospedale; so perciò cosa significano morte e sofferenza e so di aver già pregato perché sorella Morte giungesse con il suo passo leggero e si portasse via il dolore. Ma so anche che una fine c’è, che c’è chi ti sta vicino con amore e che i medici, soprattutto oggi, non lesinano antidolorifici e aiuto. Accelerando questo processo ciò che è buona cosa come buona cosa è rinunciare all’accanimento terapeutico. So anche che queste sono le situazioni abbastanza chiare mentre invece altro discorso è per la sofferenza grave cronica nella quale una fine non si intravede. Qui certo i pensieri si fermano, il giudizio non può essere altro che sospeso ma non per una rivendicazione della “sacra (come mai sacra?) libertà di disporre di sé” o di appartenenza a sé stessa di una vita o per indifferenza verso il contesto (l’autore scrive esclusivamente come se si fosse soli al mondo). In quanto al “senso perduto” citato dall’autore dell’articolo che allude con ciò anche a chi vuole terminare la propria vita perché annoiato e stanco della stessa, attenzione. Sappiamo che la depressione è fonte di sofferenza ma sappiamo anche che, proprio nella depressione, può non esserci continuità e coerenza. Chi vuole oggi morire potrebbe non volerlo più tra qualche giorno. E sappiamo che questo discorso vale soprattutto per le giovani vite. Quindi si tratta di un discorso che non può essere fatto con la sicurezza palesata dall’autore e neppure imputando la difficoltà dello stesso unicamente ai “ventriloqui della divinità” che d’altra parte in uno Stato laico non hanno l’ultima parola sulle leggi. Non sarò mai io a dire che i diritti della persona non vanno rispettati ma in questa discussione è più che mai importante vedere oltre il momento, distinguere, capire, esserci, condividere, perché la libertà può essere anche un alibi per, in un mondo che ha solo fretta, liberarci di ogni dovere e responsabilità. E i pregiudizi, caro autore, non ci aiutano.