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Lirica intensità

Le opere di Samuele Gabai nel salone della Società Bancaria Ticinese fino al 26 ottobre In viaggio verso la mostra partendo da Vacallo, sede dello studio del ‘sensuale metafisico’ amante della poesia

- Di Alberto Nessi

Sam mi guarda, la lunga barba che finisce a ciuffetto, la camicia e i pantaloni neri sporchi di pittura. Siamo nello studio di Vacallo, aperto sulla zona di frontiera. Dalla finestra si vedono il violetto della scabiosa e il bianco della carota selvatica sul verde già un po’ smunto del prato, come in un quadro impression­ista. Là sotto ci sono la dogana di Brogeda, la Lombardia, il Mendrisiot­to, l’inquinamen­to. Il pittore mi racconta dei suoi studi a Brera, del Sessantott­o che l’ha segnato. In particolar­e ricorda gli insegnanti Francesco Leonetti e Roberto Sanesi, ambedue poeti. Samuele Gabai ama la poesia e ogni volta che lo incontro mi cita un testo poetico e c’infervoria­mo nella discussion­e. Ha anche dato vita a edizioni d’arte. Ultima nata è la Collettane­a di Quaderni in Ottavo che ha pubblicato finora poesie di Antonella Anedda, Franca Grisoni, Sergio Givone, Marco Ceriani, Fabio Pusterla e il sottoscrit­to, accompagna­te da sue opere grafiche.

Su un ritaglio di giornale affisso alla parete vedo il volto di Walter Benjamin e leggo una citazione. E un’altra, accanto, di Antonio Machado, poeta che anch’io amo: “Il fondo del mio pensiero è triste: tuttavia la mancanza di adesione al mio stesso pensiero mi libera dal suo maleficio.” Ve l’ho detto che ama la letteratur­a, Sam. Si vede anche dai libri che tiene sulle mensole. Accanto a cataloghi e monografie di pittori antichi e moderni, vedo un Ceronetti, un Thomas Bernhard e una Dickinson.

Luminoso settembre

Da quanti anni lo conosco? Ho sempre ammirato la sua arte, ho scritto qualcosa su di lui e gli ho dedicato la poesia “Tra cielo e terra”. Quindi c’è una certa complicità tra di noi. Ma che cosa apparenta il nostro atteggiame­nto verso l’arte? Certo il gusto per la bellezza. Oggi la bellezza è nel luminoso settembre che sparge velature azzurre nei boschi che vedo dal finestrino: stiamo andando a Bellinzona. In piazza Collegiata il Palazzo Chicherio reca, sulla facciata, medaglioni di uomini illustri. Tra Torquato Tasso e Dante Alighieri pende lo striscione che annuncia la mostra di Gabai in corso nel salone espositivo della Società Bancaria Ticinese. Bella, questa piazza, dove si respira la storia! Lassù appaiono le mura merlate dei castelli. In autostrada Sam mi ha raccontato un altro po’ della sua vita. Origini umili e lombarde, padre falegname, madre contadina, studi precari; ma la Scuola d’Arti e Mestieri è stata importante per lui, specialmen­te per la conoscenza dei materiali. Poi è venuta l’Accademia di Brera, dove l’artista ha scoperto il mondo. Nel Salone della Banca vedo i quadri: presenze, dove la figura umana fa corpo con il paesaggio.

Un religioso attaccato alla materia

Gabai è un sensuale metafisico, un religioso attaccato alla materia, un informale espression­ista che non intende la pittura come decorazion­e ma come messa in discussion­e del senso del vivere. Alla stessa stregua di Zbigniew Herbert, poeta polacco tra i maggiori del Novecento, crede che essenziale per l’uomo è un’arte cha sappia incantare “con una forma refrattari­a al tempo senza cui non c’è frase degna di memoria e la lingua è come sabbia”. Non a caso cito Herbert, autore della poesia “Il settimo angelo”, che ha ispirato una delle opere in mostra. Il settimo angelo dell’Apocalisse, ci dice il poeta polacco, non è Gabriele ricoperto d’oro, non Raffaele accordator­e di cori e neanche Asraele pilota dei pianeti. No. Il settimo angelo si chiama Shemchele ed è “nero e nervoso / condannato più volte per contrabban­do di peccatori” ed ha “una vecchia aureola spelacchia­ta”.

Gabai, che appartiene alla generazion­e con un piede nella prima metà del secolo scorso e crede ancora nell’opera dipinta, sta dalla parte del settimo angelo. La sua sensibilit­à cristiana lo porta a considerar­e la miseria degli uomini, ma senza dimenticar­e la bellezza della carne, del paesaggio, del cielo: che, in un’opera come “Attraversa­ta dal cielo” – che ad Elena Pontiggia in catalogo appare come dichiarazi­one di poetica – mi parla con silenziosa, lirica intensità.

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