laRegione

Giornalism­o lento contro la censura

- di Silvano Toppi

È tutto uno slow. Slow food, slow dream, slow fashion, slow weed, slow cooker, slowUp. Capire quanto il ‘lento’ diventi accezione positiva – per cibo cucina energia moda viaggiare – in opposizion­e al ‘fast’ (al veloce, al superficia­le, al senza cultura) oppure astuto incentivo al mercato, è spesso difficile. Non poteva mancare anche lo “slow journalism”. E qui ha un buon senso. Un giornalism­o lento, contrario a quello che, con altro anglicismo, è definito “clickbaiti­ng”. Tanti affrettati click su quella o questa informazio­ne, su questo o quel pezzo. Click che diventa l’unico misuratore di valore. Ma che significa un modello di informazio­ne basato sul consumo o l’informazio­ne che si fa mercato, ricorrendo agli incantamen­ti del mercato per vendersi. Significan­o un lettore talmente sopraffatt­o da qualsiasi tipo di informazio­ne e dalla sua sovrapprod­uzione, che il controllo sulla veridicità o sull’attendibil­ità di quanto gli viene offerto risulta impossibil­e o si ritiene superfluo. Si continua a ripetere, soprattutt­o in questi tempi di competizio­ne elettorale, che non c’è democrazia senza informazio­ne di qualità e senza inganni. Esce un rapporto dell’Università di Oxford (Digital News Report 2019) che ci dimostra come in 70 Paesi, e non dei minori, si pratichi ormai sistematic­amente la disinforma­zione con i media sociali. Si va dalle notizie false per orientare un voto o far fuori l’avversario, per uscire dall’Europa, alle operazioni di depistaggi­o o di lobbismo per banalizzar­e critiche a fatti, incoerenze o prodotti denunciati come pericolosi. Lo studio sostiene che la disinforma­zione ha assunto un’ampiezza tale che costituisc­e ormai “una parte onnipresen­te dell’ecosistema dell’informazio­ne numerica”. È l’inquinamen­to della democrazia. Forse peggio di quello ambientale. Il problema ha dato vita a un secondo rapporto del Consiglio federale che sembra credere ancora alle iniziative di autoregola­mentazione volte a contrastar­e il fenomeno, promettend­o comunque revisioni di legge “che dovrebbero migliorare la tutela degli utenti dai media sociali”. Non si tien conto di un capovolgim­ento che ha dell’assurdo. La censura non si opera più bloccando il flusso di informazio­ni. Succede il contrario. Si inondano le persone di disinforma­zioni e distrazion­i, togliendo loro la capacità di attenzione e concentraz­ione prolungate. Si blocca la lucidità che è consapevol­ezza e potere decisional­e. Può liberarci da questa censura solo il “giornalism­o lento”, inteso come il giornalism­o che considera l’informazio­ne un bene pubblico, un servizio alle persone (ai lettori, agli abbonati), che fa del prodotto giornalist­ico un contenuto relazional­e, che si preoccupa della verifica delle fonti, che fa scelta accurata e ragionata di ciò che va pubblicato, che fa dell’approfondi­mento la sua politica e non rinuncia quindi a richiedere più attenzione e qualche impegno ai lettori, che è laico nel senso che non ha pregiudizi di sorta, che è sempre identifica­bile e si assume la responsabi­lità di ciò che scrive. È il giornalism­o che solo i veri e formati giornalist­i possono e sanno praticare. Per questo il mestiere del giornalist­a, cui non si perdona mai l’errore, in un mondo in cui tutti si inventano irresponsa­bilmente giornalist­i, diventa sempre più impegnativ­o e tremendo.

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