‘Gli Unicorni non incantano più’
L’umore è cambiato a Wall Street. La favola bella degli Unicorni non incanta più gli investitori. E a farne le spese sono soprattutto i risparmiatori arrivati ultimi alla corsa per accaparrarsi una fetta dei sogni high-tech.
Che il vento sia cambiato lo si capisce dall’andamento delle Ipo (Initial public offering, offerte iniziali al pubblico) delle azioni delle aziende tecnologiche più attese, quelle con valutazioni miliardarie e ribattezzate “Unicorni” dalla venture capitalist Aileen Lee quando, sei anni fa, erano bestie rare, solo 39. Oggi sono ben 150.
Dopo la cinese Didi (la Uber asiatica), l’Unicorno con la più alta valutazione era, fino a poco tempo fa, WeWork, la catena di spazi di co-working arrivata a 47 miliardi di dollari. Ma nell’imminenza dell’Ipo, incontrato lo scetticismo dei potenziali investitori preoccupati per il profondo rosso dei suoi conti (1,37 miliardi di dollari di perdite nella prima metà di quest’anno), i manager di WeWork e i banchieri curatori dell’Ipo hanno prima accettato di collocare le azioni con un mega sconto, a una valutazione di “soli” 20 o 15 miliardi e anche meno; poi si sono rassegnati a cancellare l’Ipo e rinviarla a non si sa quando. Hanno posticipato l’Ipo anche i responsabili di Endeavor, l’agenzia di talenti di Hollywood, che possiede fra l’altro Miss Universo ed è operativa anche nell’area dei media digitali. La decisione l’hanno presa dopo il flop dell’esordio in Borsa di Peloton, che si autodefinisce “la Apple del fitness”: fissato il prezzo dell’Ipo a 29 dollari per azione, il massimo della forchetta prevista, le sue quotazioni sono crollate dell’11% nel primo giorno di scambi, lo scorso 26 settembre, il secondo peggior debutto del 2019 per matricole che hanno raccolto almeno 500 milioni di dollari (dati Dealogic). Tuttora le azioni di Peloton sono quotate attorno a 22 dollari, il 24% meno del prezzo dell’Ipo.
Oggi in Borsa le startup ci vanno molto più tardi, con fatturati più robusti, ma se hanno pesanti perdite vengono ridimensionate subito
WeWork, Endeavor e Peloton sono società innovative con storie molto complesse. La prima è stata fondata nel 2010 da un “visionario”, Adam Neumann, dallo stile di vita eccentrico ed esagerato, che – come è venuto alla luce solo con la documentazione dell’Ipo – aveva disegnato la governance della sua startup a vantaggio dei propri interessi. Cancellato il debutto in Borsa, Neumann ha dovuto lasciare la carica di amministratore delegato e rinunciare ai superpoteri delle azioni “privilegiate” che gli garantivano il controllo della società. Endeavor aveva cominciato l’attività dieci anni fa rappresentando divi del cinema e personaggi come Donald Trump, ma ultimamente si era lanciata in una serie di acquisizioni costose e aveva creato anche una piattaforma di streaming. E Peloton non produce solo bici da palestra e tapis roulant di lusso, ma è anche una media company che crea contenuti e li distribuisce in abbonamento via internet.
Ma soprattutto tutte e tre si sono presentate a Wall Street con valutazioni astronomiche rispetto al loro fatturato e alla profondità delle perdite. Quei livelli da “Bolla” sono stati gonfiati dalla grande quantità di capitali affluiti nei fondi di venture capital e private equity, a caccia delle startup più di moda sperando in rendimenti elevati. Ma gli investitori “comuni”, quelli che comprano sul mercato pubblico della Borsa, sembrano aver perso l’appetito per quel tipo di affari. “Sono molto più razionali oggi rispetto al 1999-2000”, fa notare Kathleen Smith, manager di Renaissance Capital, che fa ricerca sulle Ipo e gestisce Etf indicizzati alla loro performance.
Vent’anni fa la Borsa accoglieva con entusiasmo startup con poco fatturato e scarse prospettive di profitti come Webvan e theglobe.com. Una Bolla finita con il crac rovinoso della gran parte delle dot.com.
Oggi in Borsa le startup ci vanno molto più tardi, con fatturati più robusti, ma se hanno pesanti perdite vengono ridimensionate subito. Lyft e Uber, i due servizi di “taxi” on demand, hanno perso rispettivamente oltre il 40% e il 30% dal prezzo delle loro Ipo, avvenute la scorsa primavera. Gli investitori “privati” erano arrivati a valutare 15 miliardi di dollari Lyft e 72 miliardi Uber; oggi la prima vale 11 miliardi e la seconda 50.
Il problema però è che i risparmiatori che comprano le azioni al loro debutto in Borsa perdono di solito molto di più dei pochi investitori – i grandi fondi o gli “amici” delle startup e delle banche d’affari – che hanno il privilegio di poterle comprare al prezzo dell’Ipo. Solo un terzo delle matricole di quest’anno ha quotazioni superiori al prezzo ottenuto nel primo giorno di scambi. Un effetto del disincanto di Wall Street è che altri Unicorni famosi – come la piattaforma di affitti brevi Airbnb e la società di data mining Palantir – hanno rinviato i loro progetti di quotazione. E se mai affronteranno il mercato, sanno che devono arrivarci con i conti in ordine e valutazioni sensate.