L’obiettivo: la fine del Rojava
Ankara – Non sono state “ritirate” da località qualsiasi le poche decine di militari statunitensi spostate dopo l’annunciofarsa del disimpegno americano fatto da Donald Trump e ritrattato da lui stesso. Il ridimensionamento del ritiro dallo scenario siriano e del conseguente abbandono dei curdi a sé stessi sembra infatti servito da segnale di via libera a Erdogan: i marines evacuati controllavano i valichi di frontiera di Akcakale e Ceylanpinar, da cui si entra nelle località strategiche di Tal Abyad e Ras al-Ayn. Dove, appunto, l’esercito turco ha aperto i primi varchi nella resistenza curda. Obiettivo: mettere fine all’esperienza del Rojava, il territorio divenuto laboratorio di sperimentazioni sociali e amministrative inedite nella regione, grazie soprattutto all’affermazione dei diritti delle donne e a una gestione confederale. La strategia di Ankara è la sua frammentazione, per isolare le Unità di protezione del popolo curdo (Ypg) e di conseguenza Kobane, la città-simbolo della resistenza curda contro l’Isis: stretta tra le aree già in mano ad Ankara a ovest – occupate nelle due precedenti invasioni tra il 2016 e il 2018 e ripopolate da etnie e milizie alleate di Erdogan – e la nuova offensiva armata a est. Per ora non dovrebbe essere attaccata, anche se i combattenti locali filo-turchi – in maggioranza arabi e turcomanni – non attendono altro. Dipenderà dalla protezione americana, tuttora presente in quell’area. Anche perché, nel progetto concordato due mesi fa da Erdogan e Trump, l’area attaccata mercoledì sarebbe dovuta diventare una “zona di sicurezza” senza colpo ferire. Per settimane c’erano stati pattugliamenti aerei e terrestri congiunti e un centro di comando condiviso. L’obiettivo esplicito di Erdogan va però ben oltre: prendersi tutta la frontiera e inondare la zona curda di rifugiati siriani attualmente albergati in Turchia. Almeno due milioni, abbastanza per il disegno di sostituzione etnica che Erdogan accarezza da tempo.