Dentro la ‘zona’
Cronaca di un viaggio nella zona smilitarizzata tra Corea del Nord e Corea del Sud. Qui la ripresa dei test missilistici di Pyongyang non viene avvertita. La guerra (1950-1953), formalmente mai terminata, garantisce una sicura rendita a Seul: la ‘Dmz’ attira frotte di turisti provenienti dai quattro angoli del pianeta.
«Quando saremo uniti il nostro Paese sarà come l’Inghilterra». La nostra guida Lee Jin-ju non ha dubbi: un giorno le due Coree torneranno a vivere insieme. La ripresa dei test missilistici di Pyongyang non influisce più di tanto sulle relazioni con il Sud. Anzi. È tutto ‘sold out’, esaurito, è quanto si sente dire chi non ha prenotato per tempo la visita guidata al confine settentrionale. Nei fine settimana non c’è un posto libero manco sul celebre treno della pace. E infatti decine sono i pullman che incontreremo alla Demilitarized Zone (Dmz, zona smilitarizzata). Un vero fiume in piena di turisti da tutto il mondo.
La partenza da Seul è alle 8 in punto: bisogna evitare gli enormi ingorghi causati dal traffico capitolino. Sul nostro autobus vi sono messicani, cittadini di Hong Kong, una decina di coreani. «Fa fico, ecco perché ci andiamo», sogghignano un’irlandese ed un’inglese, quest’ultima insegnante a Pechino con un doppio mento alla Winston Churchill. La superstrada, che costeggia il fiume, a un certo punto inizia ad essere delimitata dal filo spinato, a volte arrugginito, e torrette vuote ogni chilometro. In giro non si vedono militari, solo potenti telecamere in azione. Arriviamo a Imjingak Park – una specie di Disneyland ricolma di mercanzie marcate Dmz e fast food – per fotografare il ‘ponte dell’unificazione’. Bisogna quasi fare a spallate per camminare. Tre donne con bandierina cinese saltano sopra alla locomotiva sforacchiata dai proiettili sull’ultimo tratto della ferrovia davanti al vecchio ponte distrutto dalla guerra, mentre la guardiana locale furiosa urla loro di tutto. Nei fast food, in cui l’aria condizionata sparata al massimo non riesce a vincere il tipico odore di qui di fritto, la folla si ingozza come facevano un tempo i soldati prima della partenza per il fronte. Ripartiamo. Lee Jin-ju, nel suo inglese-coreano in cui le consonanti spesso litigano paurosamente fra loro, ci fa subito preparare i passaporti. Un giovane militare sale sul bus: controlla il numero dei presenti, guarda distrattamente da lontano i documenti e dopo due minuti se ne va. «Un tempo dai pullman facevano scendere tutti – racconta la nostra guida –. Da quando è iniziato il processo di pace è tutto tranquillo». L’autobus fa uno zig-zag per evitare le barriere di ferro. Eccoci. Siamo dentro la Dmz.
Prima tappa, il terzo tunnel. I militari del Nord ne hanno costruiti una ventina e servivano per infiltrare di spie il nemico. Dopo la visione di un film sui 3 anni di conflitto inutile – senza vinti e vincitori, ma con oltre 3 milioni di morti, con il confine rimesso al 38esimo parallelo, come stabilito dopo il 1945 dalle Grandi potenze – entriamo nella galleria, dopo essere passati attraverso i metal detector ed aver lasciato tutto in speciali cassettiere. Non si possono fare fotografie! Bisogna scendere a meno 350 metri. Sui totali 1’360 metri sono percorribili circa trecento metri in un tunnel – alto circa 1,80, largo 1,50 – rafforzato da travertini in acciaio. I civili coreani si rimpettiscono, le turiste non di rado esauste si aggrappano alla ringhiera. In fondo alla galleria sono posti una porta d’acciaio con inferriata, una gigantesca telecamera, un orologio che conta il numero dei giorni passati dalla firma della tregua sancita il 27 luglio 1953 e maschere anti-gas.
Ancora formalmente in guerra
«I coreani del Nord – continua in superficie Lee Jin-ju – sono 25 milioni, 3 milioni solo a Pyongyang. Sono poveri. Gli mandiamo convogli umanitari. Noi siamo 50 milioni, 10 a Seul». Visitiamo la stazione di Dorasan, dove nel 2003 si è tenuto un vertice coreano-americano con il presidente Bush junior. Ovunque sono collocate fotografie del primo summit diretto tra le due Coree del 27 aprile 2018 con i presidenti Moon Jaein e Kim Jong-un che si stringono la mano. I due Paesi sono ancora formalmente in guerra. Ci inerpichiamo sull’osservatorio Dora. Ci allontaniamo a passo veloce da un bambino cinese sui 12 anni, formato Big Mac, sospinto per la salita irta (una decina di gradi) da due minuscole bambine, temendo che lui cadendo possa trasformarsi in una biglia del bowling con la miriade di turisti attorno a fare da birilli. Da qui sopra si vede la piana con il confine, la prosecuzione della Dmz, due gigantesche bandiere, il villaggio fantasma ultramoderno del Nord («è vuoto», dice la nostra guida), un centro industriale ed il sito di Panmunjeom, dove si tengono i colloqui ufficiali bilaterali. Le postazioni militari del Nord sono ben mimetizzate. In passato le reciproche propagande si davano battaglia a suon di megafono, adesso tutti si sono dati una calmata: alla riconciliazione si deve pur dare una chance. Ci vengono in mente i ricordi di quando nell’agosto 1989, con ancora il Muro in piedi, salimmo sulla torre tv di Berlino Est insieme a dei ragazzi di lì per guardare l’Occidente capitalista. Qui è il contrario: si ha davanti il Nord comunista.
Sì, questo è l’ultimo bastione della Guerra fredda, l’ultima frontiera, l’ultimo argine alla globalizzazione del XXI secolo. E se si entra in libreria a Seul i libri pubblicati in inglese sui fratelli del Nord raccontano la tipica società comunista ‘di passaggio’, quasi ‘post’ (come nell’ex Urss 19881991), tutta traffici in nero e corruzione dilagante. I rari cellulari, ad esempio, sono arrivati da Pechino, il maggior ‘azionista’ di Pyongyang. «Se la loro economia crescerà – prevede il professor Sung – Kim non sarà più in grado di mantenere il potere. Ma sarà una cosa lunga». Senza la Cina, Paese detestato dai coreani del Sud – continue sono le manifestazioni anti-Xi Jinping con ampio dispiegamento di bandiere locali ed americane –, l’ultimo ‘muro’ crollerà.