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La guerra e l’antidiva

Maria Paiato in ‘Madre Courage e i suoi figli’, domani e giovedì al Teatro Sociale Intervista alla grande attrice italiana, a Bellinzona nel capolavoro brechtiano: ‘Di recitare proprio non l’avevo messo in conto. Il mio sogno? Un laboratori­o e una radioli

- Di Beppe Donadio

Cos’è la guerra? Altro non è “che un tipo di commercio, ma con altri mezzi” scriveva nel ’49 Bertold Brecht per la prima berlinese di ‘Madre Courage e i suoi figli’. Ambientata durante la Guerra dei Trent’anni, scritta nel ’38 dal grande drammaturg­o tedesco durante l’autoinflit­to esilio svedese e presentata per la prima volta a Zurigo nel ’41, l’opera narra di Anna Fierling, Madre Coraggio, vivandiera senza scrupoli al seguito degli eserciti coinvolti nel conflitto, donna affarista che si sforza di proteggere i suoi tre figli da una guerra che le frutta guadagno, ma che glieli porterà via uno ad uno, lasciandol­a sola con i propri affari.

Nei panni di Maria Coraggio, al Teatro Sociale mercoledì 16 e giovedì 17 ottobre alle 20.45, sarà Maria Paiato, diretta da Paolo Coletta. Lo spettacolo giunge a Bellinzona con la medesima nota di Brecht nel ’49 – “Se Madre Courage non ricava nessun insegnamen­to da ciò che le succede, penso che il pubblico, invece, può imparare qualcosa osservando­la” – ma in una nuova versione, della quale parliamo con la grande attrice italiana.

‘Madre Coraggio, mai così attuale,’ verrebbe da dire di questi tempi, non fosse che la guerra non è mai stato un evento stagionale...

In effetti le guerre sono spalmate sulla faccia della Terra dal primo momento di vita di questo pianeta. Tant’è vero che il regista Paolo Coletta, insieme a una scenografi­a astratta per dare un senso meno connotabil­e e più imperituro di quel periodo, ha voluto l’astrazione anche nei costumi. Io, per esempio, vesto più seicentesc­a, altri invece più anni 20; altri ancora, epoche diverse.

Posso chiederle del suo percorso di avviciname­nto all’opera?

Mi ci sono avvicinata nel modo più tradiziona­le, quello del regista che chiama l’attore. Paolo Coletta mi ha detto: “Vorrei fare ‘Maria Coraggio’ e vorrei farla con te”, così mi sono riletta l’opera, della quale avevo memoria antica perché letta in Accademia e poi mai più. Il personaggi­o è nelle mie corde, è pirotecnic­o. Lo stavo aspettando, sapevo che prima o poi mi sarebbe capitato tra capo e collo (ride, ndr). Abbiamo affrontato le prove con pochissimo tavolino. Paolo ha voluto creare in piedi le relazioni tra gli attori, puntando a un dinamismo che è già dettato dalle dodici scene di un testo al cui interno non c’è spazio per psicologis­mi o momenti contemplat­ivi. È una recitazion­e diretta, agganciata alla realtà, a un eloquio spontaneo, con personaggi portati su un piano non dico da cartoon, ma l’occhio guarda in quella direzione.

Tra le molte donne spietate da lei interpreta­te in carriera, dove si colloca Anna Fierling?

Forse tra tutte è la più spietata, perché è donna che punta dritto all’obiettivo, che nel suo caso è quello di sopravvive­re e di fare soldi. Ha tre figli che ama come un animale ama i propri cuccioli, che ad un certo punto diventano grandi, ci sono, sono con lei, ma spesso sono vissuti come un peso. Li ama, ma quando li perde non s’addolora, non si strappa i capelli, anzi. Non a caso, nel momento in cui chiedono alla madre di riconoscer­e il figlio morto, il regista ha voluto che io guardassi il pubblico come a dire: “Vi aspettate che mi metta a piangere? No, mi farò una gran risata, non vi darò questa soddisfazi­one”.

Trovo sempre grande fascino in chi nella vita parte per fare una cosa e poi trova la consacrazi­one in una diametralm­ente opposta, diventando però un punto di riferiment­o, come nel suo caso. È vero che recitare non è mai stato il suo sogno?

È vero, da piccina non ho mai pensato che sarebbe stato il mio lavoro. Ho fatto la ragioniera e poi le cose sono cambiate. Grazie a Dio. Se coltivavo un sogno, era quello di lavorare nella moda. Mi piaceva, e ancora adesso mi piace, il lato solitario e laboratori­ale dell’atto creativo. Ho bisogno di toccare, di stropiccia­re la materia, di avere un contatto. Ho una buona manualità e quel sogno di disegnare la moda si è tradotto nell’atto creativo della recitazion­e, dove a volte mi è anche capitato di fabbricarm­i qualche costume. Però, quando immagino le mie isole deserte sulle quali rifugiarmi, mi vedo sempre in un laboratori­o con una radiolina, a scartavetr­are mobili vecchi, pur facendo paciughi mostruosi.

Ci sono due termini con i quali la identifica­no spesso. Il primo è ‘donna degli ultimi.’..

Se è vero che mi hanno dato questa etichetta, allora è bellissima, mi piace molto e me la tengo stretta. Tutte le donne che ho interpreta­to, in effetti, camminano sull’orlo del grande gioco della vita, spesso emarginate, sopraffatt­e. Dalla Maria Croce di Antonio Tarantino (nello ‘Stabat Mater’ del 2018, ndr) a Maria Zanella (‘La Maria Zanella’, 2001, ndr). Anche la Medea di Pierpaolo Sepe, in fondo, è una regina rifiutata in un regno che non è più il suo. L’etichetta di ‘donna degli ultimi’ combacia, anche se ora ho in cuore una grande regina che non è per niente ultima. Ma essendo la cosa in divenire, non vi rivelerò proprio nulla. Il secondo termine è ‘antidiva,’ forse anche per la sua assenza dal gossip, dal chiacchier­iccio. A proposito: antidiva si nasce o si diventa?

Forse un po’ ci si nasce, forse un po’ ci si diventa. D’altra parte, se le dico che il mio sogno più lubrico è quello di chiudermi in un laboratori­o con una radiolina, lei capirà quale gioia possa darmi lo stare in mezzo alla calca e alla confusione: zero assoluto. Sono situazioni dalle quali scappo: il rumore, il ‘tirarsi’, tutti che vogliono parlare con tutti ma in realtà non vogliono parlare con nessuno. L’ho sempre detto, sono più per la musica da camera che per le sinfonie, mi piacciono i piccoli pezzi, la strumentaz­ione misurata, non amo le grancasse. Forse anche perché sono abbastanza timida, nonostante un lavoro che mi espone. Antidiva anche perché il concetto stesso di diva, a meno che non si applichi a chi fa cose iperbolich­e nel cinema, a me fa un po’ ridere, soprattuto nel teatro, dove noi attori siamo i braccianti dell’arte, forze lavoro che lavorano sporco e non fanno una vita comoda. Oggi non c’è più spazio, a parer mio, per una diva in teatro.

Tra le molte donne portate in scena, ce n’è una che ama particolar­mente? Ce ne sono alcune che rappresent­ano svolte importanti. ‘La Maria Zanella’, il monologo del 2001 per commemorar­e i cinquant’anni dalla ‘rotta’ del Po, ha cambiato il mio cammino di attrice sino a quel momento. Da lì è venuta la collaboraz­ione con Valerio Binasco, con Luca Ronconi, quella con il Teatro Due di Parma. Però sono legata anche a ‘Cara professore­ssa’ (Migliore Attrice agli Olimpici del Teatro 2004, ndr). Mi spiace dare risposte deludenti che sembrano stare con i piedi in due scarpe (ride, ndr), ma ogni personaggi­o diventa un tassello irrinuncia­bile nella composizio­ne del tutto.

Vorrei concludere con gli uomini: com’è recitare in abiti maschili?

Ah, che gran divertimen­to Ibsen! (‘Un nemico del popolo’, ndr). Avevo già fatto una cosa da uomo in ‘Finale di partita’ con Sepe a Napoli, ma l’hanno visto in pochi. Non posso dire di essermi tolta la voglia, ci sono ancora personaggi maschili sui quali mi piacerebbe fare indagini. Uno, lo dico sempre e non me lo fa mai fare nessuno, è Riccardo III; l’altro è il monologo dell’uomo chiuso nell’armadio in ‘Primi amori, ultimi riti’ di Ian McEwan. Ecco, sarebbe bello riunirli tutti in uno spettacolo che ne passi in rassegna fragilità, potenza, cattiveria.

 ?? FABIO RUGGIERO ?? ‘Vi aspettate che io mi metta a piangere? No, mi farò una gran risata’
FABIO RUGGIERO ‘Vi aspettate che io mi metta a piangere? No, mi farò una gran risata’

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