laRegione

Diritti siriani

A colloquio con Donatella Rovera di Amnesty Internatio­nal

- a cura di Lorenzo Erroi

Mentre continua l’attacco turco contro i curdi nel nordest della Siria, l’investigat­rice del Crisis Response Program ci spiega cosa ha visto nel corso delle sue indagini sul campo. Sguardo su un conflitto nel quale è impossibil­e distinguer­e nettamente i buoni dai cattivi, e dove ‘la realtà è molto diversa dalla narrazione che se ne fornisce’ lontano dal fronte.

«È un conflitto multidimen­sionale, dove alle divisioni interne si aggiungono le ingerenze internazio­nali: non ci sono sempliceme­nte i buoni da una parte e i cattivi dall’altra». Donatella Rovera, investigat­rice del Crisis Response Program di Amnesty Internatio­nal, si occupa da oltre vent’anni di trovare prove materiali per dimostrare le violazioni dei diritti umani in zone di guerra e di crisi. Parla correnteme­nte l’arabo, si muove spesso da sola per evitare di essere manipolata dai ciceroni locali (i cosiddetti ‘fixer’), preferisce parlare solo di quello che ha potuto verificare. E ci tiene a sottolinea­re che «la realtà sul terreno spesso è molto diversa dalla narrazione che se ne fornisce lontano dai teatri del conflitto».

Eppure nel caso dei curdi aggrediti dalla Turchia la questione si direbbe piuttosto chiara: le vittime sono state tradite dagli americani, il carnefice (o aspirante tale) è Erdogan.

Non è così semplice. I curdi amministra­no anche zone a maggioranz­a araba, in una situazione dove comunque i presuppost­i per uno Stato di diritto sono molto fragili. E così come i curdi non amano essere governati dagli arabi, gli arabi non amano essere governati dai curdi. Inoltre i diritti umani sono stati violati anche dagli stessi curdi: già nel 2015 avevamo documentat­o la distruzion­e totale di villaggi arabi nel nord della Siria, analogamen­te a quello che su scala maggiore è accaduto in Iraq. A complicare ulteriorme­nte il quadro è anche una minoranza curda filoturca, legata ad altri gruppi di ribelli siriani e ostile alle milizie dell’Ypg (Unità di protezione popolare curda, ndr).

Ma l’invasione turca...

Attenzione a non parlare semplicist­icamente di invasione turca. Bisognereb­be ricordare che i bombardame­nti sono sì effettuati da Ankara, ma l’azione sul terreno è in mano a gruppi ribelli siriani, seppur armati dalla Turchia. Di certo il potenziame­nto curdo da parte degli Usa ha esacerbato le tensioni al confine. Anche stavolta il rischio è che ad andarci di mezzo siano i civili: si parla già di centinaia di migliaia di sfollati.

Però gli Usa hanno tradito un alleato e fatto una mossa che indebolisc­e ulteriorme­nte la regione. O no?

Mah, è difficile capire cos’abbia in testa Donald Trump, che spesso agisce in contrasto con esercito ed intelligen­ce. Va detto però che anche la presenza americana nella Siria del nordest era piuttosto innaturale, proprio perché armando e sostenendo i curdi rischiava di contribuir­e alle tensioni regionali. D’altronde anche l’esercito americano ha gravi responsabi­lità nel conflitto, come dimostrano le migliaia di civili uccisi e feriti dalla Coalizione occidental­e durante l’attacco a Raqqa (capitale dell’Isis in Siria fino alla sua caduta nell’ottobre 2017, dopo quattro mesi di bombardame­nti, ndr).

Dal punto di vista americano, immagino che la giustifica­zione venga dalla lotta all’Isis.

Presentars­i come ‘liberatori’ è una versione che spesso stride con la realtà. Raqqa è stata distrutta per più dell’80%. In venticinqu­e anni di lavoro non avevo mia visto una cosa del genere, neanche a Falluja e Mosul, in Iraq. E se l’esercito che dispone delle tecnologie più avanzate e più precise fa questo, si immagini che metro di condotta può dare agli altri combattent­i. Sempre a proposito di Isis, ora si teme che i circa 11mila sospetti combattent­i detenuti nelle prigioni curde – fra i quali 2mila ‘foreign fighters’ – possano scappare e tornare a combattere, o addirittur­a esportare la jihad in Occidente.

Con loro, le migliaia di famigliari che vivono nei campi profughi della zona. All’inizio, l’amministra­zione curda voleva rispedire lei stessa i foreign fighters in Europa. Poi si è resa conto che farsene carico garantiva una certa misura di riconoscim­ento e di aiuto da parte dell’Occidente. Ma non bisogna dimenticar­e che in quella zona, nelle condizioni attuali, non può esistere un giusto processo. È difficile sapere quello che succede in quelle prigioni, dove ci sono anche dodicenni insieme a jihadisti adulti e dove molti sono detenuti dalla caduta di Raqqa, ma altri da molto prima. In ogni caso questi giorni sono troppo concitati per fare previsioni.

Ora si ipotizza che la Turchia voglia utilizzare la zona siriana a ridosso del confine per rimpatriar­e almeno in parte gli oltre tre milioni di rifugiati che ha accolto dall’inizio del conflitto.

Se lo facesse, consegnere­bbe quelle persone a condizioni inaccettab­ili. È anche discutibil­e chiamarlo rimpatrio, visto che solo una minoranza dei rifugiati viene da quella zona: si ritrovereb­bero a essere sfollati interni. Ma di certo Ankara ne avrebbe la possibilit­à, e ne trarrebbe anche un vantaggio politico: in tempi di crisi economica, la presenza siriana in Turchia ha generato tensioni crescenti presso la popolazion­e locale. Un problema che peraltro si ritrova anche in Libano, dove c’è oltre un milione di rifugiati a fronte di soli sei milioni di abitanti.

C’è chi parla di arabizzazi­one dell’area, e chi denuncia il ricatto del presidente turco Erdogan all’Europa: se non mi fate fare come voglio io, vi mando i migranti che ho dovuto accogliere al posto vostro.

Quanto all’arabizzazi­one, ripeto: la regione è già etnicament­e variegata, non ci sono solo i curdi. Davanti all’Ue, il ricatto sui rifugiati è già stato utilizzato ripetutame­nte da Erdogan. È la conseguenz­a di un’Europa che ha scelto di commercial­izzare la questione dei migranti, fornendo sostegno economico al governo turco (oltre sei miliardi di franchi, ndr) purché fermasse l’afflusso verso ovest.

I nodi dell’opportunis­mo europeo vengono al pettine, insomma. Ora l’Europa cosa dovrebbe fare?

Anzitutto, la sua parte. Ovvero accogliere una quota maggiore di rifugiati, perché la situazione è insostenib­ile e i paesi confinanti hanno a loro volta chiuso le frontiere. Con il risultato che ad esempio nella zona di Idlib, nel nordovest della Siria, ci sono tre milioni di abitanti scappati dagli attacchi di Assad e dei russi, che si ritrovano in un vicolo cieco: non sanno più dove andare e vivono in condizioni agghiaccia­nti. L’Ue deve affrontare la cosa per quello che è: non un grattacapo che si risolve con qualche soldo, ma un’emergenza umanitaria.

Ad esempio?

Fra Idlib e Hama, ho conosciuto una famiglia che vive in una cava abbandonat­a da secoli. È dal 2013 che si erano rifugiati in queste specie di catacombe, per proteggers­i dalle bombe. Pensavano che l’emergenza sarebbe durata pochi mesi, invece sono ancora lì. Poco lontano, sottoterra hanno realizzato un intero ospedale. È impression­ante vedere come i cittadini e le famiglie più comuni riescano ad adattarsi alle condizioni più avverse.

A cosa serve il lavoro di Amnesty?

Anzitutto a mettere i vari attori di fronte alle loro responsabi­lità. È il caso di Raqqa: grazie alle prove che abbiamo raccolto, gli Usa hanno iniziato ad ammettere almeno parte dei casi in cui i loro bombardame­nti hanno ucciso civili. Per avere giustizia e risarcimen­ti ci vorrà tempo, ma intanto la coscienza dell’accaduto può aiutare a superare una certa denegazion­e, e ad evitare di ripetere gli stessi errori.

 ?? KEYSTONE ?? Situazione ingarbugli­ata
KEYSTONE Situazione ingarbugli­ata

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland