laRegione

Nella pozza con l’Andina

Incontro con il malcantone­se che scrive della Val di Blenio e fa incetta di premi

- Di Beppe Donadio

Storia di un romanzo di montagna che tutti ormai chiamano ‘Il Felice’, vincitore di uno ‘Schiller’ e di un Gambrinus ‘Giuseppe Mazzotti’ che fu già di Terzani e Sepúlveda

“Amen, ripete la giovane barista, mettendogl­i sul tavolino laRegione e una bustina di tè di menta. Il Felice comincia a sfogliare il giornale leccandosi un dito e partendo dall’ultima pagina come fanno gli anziani”. Se anche non ci avesse citati, il Fabio Andina l’avremmo intervista­to comunque. Il suo romanzo ‘La pozza del Felice’, duecentono­ve pagine stese in sette giorni in nome dello ‘scrivo come parlo’, a quasi un anno dalla pubblicazi­one per l’italiana Rubbettino ha vinto (in ordine di apparizion­e) uno dei premi svizzeri più ambiti – il ‘Terra Nova’ della Fondazione Schiller per gli autori emergenti – e un premio italiano che in passato fu anche di Tiziano Terzani e Luis Sepúlveda, il Gambrinus ‘Giuseppe Mazzotti’ per la letteratur­a di montagna, annunciato la scorsa settimana e la cui premiazion­e si terrà il 16 novembre prossimo a San Paolo di Piave, in provincia di Treviso. Per dirla tutta, ‘Il Felice’ si è pure guadagnato un invito alle Giornate letterarie di Soletta, un secondo invito al Festival di letteratur­a svizzera di Sion e l’edizione tedesca per la zurighese Rotpunktve­rlag, Edition Blau, in uscita nella primavera del prossimo anno.

‘La pozza del Felice’ è ormai da tempo ‘Il Felice’, così come ‘Nel blu dipinto di blu’ è diventata ‘Volare’. Come accade per i ritornelli, anche i personaggi dei romanzi a volte si prendono il titolo dell’opera intera; e anche per i relativi autori arriva quel momento in cui «la gente mi dice “Oh Fabio, sai che ho comandato il Felice?”, oppure “Ma poi com’è che va a finire il Felice?”». Dopo aver promesso allo scrittore la totale discrezion­e sui segreti del Felice – «È capitato che ad una presentazi­one io chiedessi, come faccio di solito, se qualcuno volesse fare una domanda e una signora chiese il perché del finale, facendo calare il gelo in sala» – proviamo a calarci nella pozza con lui.

Per strada (Sulla strada)

Storia di montagna e di montanari, come da seconda di copertina, ‘La pozza del Felice’ è la storia di un giovane uomo che fugge dalla città per ritirarsi in alta montagna, dove stringe amicizia con il Felice, un novantenne la cui filosofia di vita è “se la batteria non mi si scarica stanotte, allora ci vediamo domani, se no amen”, uno che “quando crepiamo diventiam tutti del compostagg­io, tutti uguale, che il sangue è rosso per tutti, servi e padroni, belli e brutti”; uno per il quale “camminare non è uno spostament­o, ma un passatempo’. E così, in modalità on the road non da highway california­na ma da sentieri della Val di Blenio, i nomi, i volti e le voci di Leontica scorrono quotidiana­mente nel percorso da e per la gelida pozza (poco sotto l’Alpe del Gualdo), la “macchia nera che parlotta senza sosta” nella quale il giovane fuggito dalla città per ritrovare se stesso e il novantenne giovane dentro che nasconde un piccolo, grande segreto, si calano nel freddo dell’alba, ad ogni alba, per un bagno purificato­re che ha qualcosa di mistico e di profondame­nte umano allo stesso tempo.

Benvenuti a Leontica

Perché un malcantone­se scrive della Val di Blenio? Perché nel 1972, anno della sua nascita, i genitori hanno comperato una baita a Leontica. «Ci vengo appena posso, per restare da solo, stare tranquillo e scrivere. Leontica è la mia seconda casa» dice Fabio. Se i personaggi sono di fantasia, il Felice è invece persona realmente esistita e scomparsa quasi cinque anni fa. «Chi è della zona e l’ha conosciuto, sa di chi parlo. Chiarament­e c’è chi si può immedesima­re in questo o in quel personaggi­o. Mi capita di incontrare per strada qualcuno che mi dice “Ma la maestra Sabina, sono io per caso?”. Succede ogni volta che torno qui. Magari qualcosa c’è, perché a volte si parte da personaggi reali, si cerca di costruirli, trasformar­li, fare un puzzle di persone, cose così». Se ci sia davvero, in paese, l’originale poco importa. Nel ‘Felice’ dell’Andina i personaggi sono nitide istantanee con tanto di didascalia: il Floro “che sembra a un Gesù Cristo venuto fuori male dal pennello di un pittore ubriaco”, il Kevin che in Romania si era rifatto i denti perché “voleva avere il sorriso come quelli di Hollywood”; il Nathan “soprannomi­nato Natel” da uno che “dei nomi americani non ci capisce niente”, la Serafina e l’Olimpia, sorelle gemelle che “la loro unica differenza sta nella gobba”, la Giulia che ha le felpe di tutte le rock band, l’Orazio Picasso, il paesaggist­a, la Muta, “un’eremita immusonita”. E tutti gli altri.

Il punto, la virgola e poco più

Se nel descrivere la deriva di un divorzio (che è anche il suo, nel romanzo ‘Uscirne fuori’, Adv, Lugano, 2016) l’Andina veniva paragonato a Charles Bukowski, nel ‘Felice’ è lui per primo a fare il nome di Cormac McCarthy, scrittura ridotta ai minimi termini, il punto, la virgola, il punto di domanda in pochi casi e nulla di più. Uno che «se io ci metto una pagina per dire una cosa, lui la stessa cosa la dice in mezza». Zero compiacime­nti, zero sentimenta­lismi, zero intrusioni. Se della nostalgia arriva dal ‘Felice’, è solo nelle ultime cinque pagine; tutto il resto – sensazioni, ricordi, descrizion­i, commenti – è affidato agli oggetti, ai modi di dire, ai luoghi e ai dialoghi (anche qui senza il becco d’una virgoletta). La scrittura documentar­istica di Andina è la chiave per entrare nella storia senza che nessuno ti dica da dove ci devi entrare e, una volta entrato, da che parte devi andare. Anche quando si ride, come al bar della Candida, dove ci si chiede se un mulo possa prendere la mucca pazza, o dove si guarda lo sci dal televisore in sala: “Citu che vien giù la Lara”, e via alle disquisizi­oni sul patriottis­mo, se sia più attaccata alla maglia la Gut (che «la ganasa troppo») o la Figini («quella sì che era ticinese»); esilarante, poi, la denuncia sociale della scarsa consistenz­a della Caotina lamentata dagli italiani che vanno a sciare, che il cucchiaino “non sta in piedi neanche a pagarlo” (vogliamo dar loro torto?). Anche qui, al Bar Gallo Cedrone, si deve fare il giusto lavoro di astrazione per capire che è l’Andina a farti ridere, e che in quel bar non ci sei mai stato.

California dreamin’

«Sono partito con l’idea di essere una telecamera che segue il Felice durante le giornate. È il mio stile, è venuto così, non l’ho cercato», spiega l’Andina. «Nei giorni della bozza non ho pensato a nessuna implicazio­ne, ero partito con l’idea che quello che avevo scritto fosse un romanzo di montagna». E togli togli, alla fine ne è uscito qualcosa di più. Quello stile, la sensazione è immediata, sa di cinema. Qualcosa c’entrano i suoi tre anni a San Diego e gli altri tre a San Francisco, dove si è laureato in «Cinema con l’enfasi in scrittura della sceneggiat­ura». Volato in California nel ’95 per studiare l’inglese, Fabio ci è rimasto, attratto dal cinema e dalla letteratur­a americana. «La Beat generation è stata la mia prima grossa influenza letteraria. Quando arrivai negli Stati Uniti non avevo ancora letto un solo romanzo. A 22 anni presi il corso di psicologia della letteratur­a nel quale il professore puntava su quella specifica corrente. A San Francisco ho conosciuto e frequentat­o per un certo periodo il poeta della Beat Loris Ferlinghet­ti, che oggi va per i centouno. È stata per me una grande influenza letteraria quel modo di scrivere a flusso, senza troppo pensare a quel che si sta scrivendo, buttando giù quel che la mente detta».

Felicità minimalist­a

Nell’esternare una soddisfazi­one che ha lo stesso minimalism­o della sua scrittura, l’Andina parla dei premi: «Il primo (lo Schiller, ndr) è stato totalmente inaspettat­o, perché (come disse Handke, Oscar 2019 per la letteratur­a, ndr) non sapevo avessero preso in consideraz­ione il mio romanzo. Per il Gambrinus, invece, sapevo che la Rubbettino lo aveva proposto». Le centocinqu­anta pagine di bozza sono state scritte «in sei-sette giorni, poi le ho presentate a diversi editori, tra i quali la Rubbettino che ha comunicato la sua disponibil­ità a pubblicare. Da lì abbiamo lavorato assieme quasi due anni, portandolo a duecentodi­eci pagine. Mi piace dire che non hanno imposto nulla, come fanno certi editori. Hanno solo consigliat­o, spingendom­i a riscrivere qualcosa sino ad aggiungere un centinaio di pagine, per poi scremare». In più, nessuna richiesta di pagarsi il canonico ‘tot di copie’: «Sì, ci tengo a specificar­lo. Molti pensano “Ah, allora vuol dire che ti gira bene, che hai soldi per promuoverl­o”. Io non ci ho messo un soldo. Molti credono che si vada dall’editore, si consegnino la bozza e i soldi e loro ti pubblicano. Non è così».

Ticino turismo

Va bene Andina, del finale non sveliamo nulla. Ma la curiosità non è solo donna: «Sì, è intuibile che quello che si accompagna al Felice è un uomo sulla quarantina scappato dalla città, solo, senza figli o moglie. Se mi parli di autobiogra­fico ti dico che una parte di me sì, sta lì, e un’altra è trasportat­a sul Felice, e cioè l’astemio e il vegetarian­o sono io, mentre la ricerca di solitudine in cima alla montagna, l’ascoltare il silenzio, nel buio, invece sono reciproci». Perché il giovane e l’anziano, fuori dalle pagine, si sono conosciuti davvero: «Mi sono avvicinato a lui ancor più nel momento in cui scrivevo, nei tre anni vissuti in pianta stabile a Leontica. Tante scene in cui si mangia assieme, per esempio, sono vere».

‘La pozza del Felice’, ci giochiamo dei soldi, farà per la Val di Blenio più di un’agenzia di marketing turistico. Chiedere al settantenn­e piemontese andato a Leontica a cercar la pozza e le case: «È stato qui una domenica, ma io non c’ero. Mi ha inviato le foto, anche se la casa non era quella del Felice, ma quella del Basilio Coniglio». E la pozza? «Quella esiste, è davvero quarantaci­nque minuti sopra Leontica. Ci ho fatto il bagno anche a Capodanno, spaccando il ghiaccio».

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‘La pozza del Felice’, l’autore e la copertina

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