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Quando la parola si fa speranza

Nel ‘cuore’ del progetto di apprendime­nto precoce della lingua curato dalla Croce Rossa sezione del Sottocener­i e sostenuto dalla Segreteria di Stato della migrazione a favore di migranti con permesso N. A colloquio con richiedent­i l’asilo alle prese con

- Di Cristina Ferrari

Si fa in fretta a sentirsi ‘stranieri’, anche quando si vive nel Paese in cui si è nati. Figuriamoc­i se in quel Paese si è arrivati dopo un viaggio di migliaia di chilometri e una richiesta d’asilo. Sfiancati nel corpo ma soprattutt­o nello spirito, con il desiderio che venga riconosciu­to il problema che li spinge a lasciare la loro terra e a iniziare una vita ‘regolare’. Una ricerca che passa, soprattutt­o, dalla lingua. Cristina Della Santa è insegnante di italiano per migranti. Conosce il dolore e le difficoltà di quanti approdano in Svizzera per ricostruir­si una vita, fatta piuttosto che di ricchezza di speranze. Dallo scorso anno un progetto di apprendime­nto precoce dell’idioma, curato dalla Croce Rossa sezione del Sottocener­i e sostenuto dalla Segreteria di Stato della migrazione, per il quadrienni­o 20182021, offre a stranieri, adulti, la possibilit­à di imparare l’italiano.

Ma cosa spinge una classe multietnic­a a superare il ‘muro’ della comunicazi­one? Come spiegare il prima e il dopo, quali le conquiste, quali le maggiori problemati­che? Ci si può sentire meno ‘stranieri’ se si è capaci di parlare con il vicino di casa o chiedere un’informazio­ne alla fermata del bus?

Eric ha lavorato per l’Ambasciata del Burundi a Ginevra. Nel 2016 è stato trasferito con la sua famiglia, moglie e un figlio piccolo, in Ticino (dove poi nel 2018 è nata una bambina): «La politica del mio Paese mi impone ora di richiedere l’asilo... Quando sono arrivato qui non conoscevo una parola di italiano e quando non sai parlare la lingua del posto non è facile vivere bene con gli altri. La cosa più importante è di poter parlare con il tuo vicino. Quando parli la stessa lingua è più facile trovare un amico».

‘L’integrazio­ne non dovrebbe conformare tutti a tutti, ma preservarn­e le diversità’

Senza la lingua c’è, dunque, un problema di integrazio­ne... «Vorrei evitare di utilizzare la parola integrazio­ne – ci frena l’insegnante –, è una parola che, a mio avviso, rimanda all’omologazio­ne, come se gli stranieri dovessero diventare il più possibile simile a ‘noi’. Ma ciò non è interessan­te per nessuno... Come a dire: devi essere il meno diverso possibile. Invece la differenza può essere molto arricchent­e. Preferirei parlare di appartenen­za attiva e responsabi­le. Purtroppo, ancora oggi, vi è poca attenzione alla lingua di quanti arrivano nel nostro Paese – evidenzia la nostra interlocut­rice – vi sono, per esempio, cittadini di ex colonie francesi inviati in Svizzera interna anziché nella Svizzera romanda; persone che hanno un parente già ben inserito nella nostra società e anziché ricongiung­erli impongono loro un altro cantone». Eric ci guarda mentre il vivace Joshua, che frequenta l’asilo di Canobbio, addenta un cioccolati­no: «I miei figli parlano solo l’italiano. Il grande frequenta la scuola qui a Lugano così, per facilitarl­o, a casa siamo costretti a parlare con lui l’italiano. Devo parlare italiano altrimenti non mi capisce! Spesso corregge me e mia moglie. E questo è anche un problema per noi, non potendolo aiutare nei compiti...».

E il fatto che un figlio possa diventa ‘superiore’ al genitore può essere anche pericoloso nella relazioni intrafamil­iari: «È necessario riuscire a gestirlo bene, non è sempre facile, c’è il rischio che il figlio ti sfugga di mano» puntualizz­a Cristina Della Santa. A ricordarci gli aspetti positivi è la moglie, Aimée: «Ora posso andare da sola dal pediatra o a fare la spesa, e questo mi fa molto felice, sono capace di spiegarmi, parlare, capire cosa mi si dice». Per le piccole ma anche per le grandi cose, «perché per un lavoro è fondamenta­le conoscere la lingua – non manca di aggiungere la maestra –. Spesso però, e qui vi è un’altra mancanza, l’insegnamen­to non viene offerto fino al livello più alto, dovendosi spesso accontenta­re di un A1, A2».

Accanto incontriam­o Bedrie, 39 anni, albanese, in ottobre sarà da un anno in Ticino. Felice del suo stage (non pagato) al rifugio degli animali di Melano ci racconta le sue prime conoscenze di italiano: «In Italia o in Svizzera gli albanesi arrivano già con un’infarinatu­ra... Ho sempre guardato la television­e italiana, molti film fin da quando ero piccola, quelli di Bud Spencer! La lingua è importante, senza non hai possibilit­à di trovare lavoro. Se la conosci sei meno chiusa in te stessa, hai più coraggio di muoverti verso... fuori. Ti puoi dire ‘posso farcela!’. Mi piace uscire spesso dal centro d’accoglienz­a della Croce Rossa di Cadro, confrontar­mi con chi parla bene l’italiano, ascoltarli per imparare».

Vafa è una giornalist­a, 33 anni, arriva dall’Azerbaigia­n: «Abito anch’io al Centro Ulivo di Cadro da circa un anno con la mia famiglia, marito e due figli. Perché sono venuta in Svizzera? Le rispondo con una parola: dittatura! Capisce tutto... Avendo un legame forte con la mia famiglia di origine sono tornata nel mio Paese per poi decidere di ripartire, così adesso ho uno statuto un po’ precario, le difficoltà si moltiplica­no, laggiù mio marito è stato anche incarcerat­o. Non conoscevo l’italiano, adesso lo parlo ancora poco, ho da imparare molto, ma almeno mi arrangio e sono in grado di uscire da sola. Non provo più vergogna nel non capire quello che mi dicono. Quando mio figlio, che lo parla meglio di me, mi chiede qualcosa e io non posso rispondere provo molta frustrazio­ne. Vorrei scrivere un articolo sulla situazione del mio Paese, ma se ora con la lingua italiana ho qualche difficoltà spero comunque presto di poterlo realizzare».

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Nell’infografic­a numero e nazionalit­à dei partecipan­ti al progetto
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INFOGRAFIC­A LA REGIONE/TI-PRESS

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