laRegione

‘Siamo tutti migranti, tutti alla ricerca di noi’

-

«Il romanzo ‘Di un fragile legame’ nasce e si muove dentro il filo delle narrazioni che ho raccolto da persone migranti che da anni giornalmen­te incontro quale insegnante di italiano in progetti a loro dedicati, ma parla anche di altri incontri e di me, dei miei vissuti, dei miei pensieri ed emozioni, attraverso un susseguirs­i di molte voci narranti». Cristina Della Santa è, dunque, un vero e proprio... libro aperto: «Siamo tutti migranti, tutti alla ricerca di una parte di noi stessi da riscoprire, tutti in viaggio».

Come si è concretizz­ato questo suo primo romanzo?

Ho sempre scritto solo racconti [per i quali ha vinto dei premi, ndr.] non solo perché è una scrittura ‘di getto’ ma anche perché, tramite il mio lavoro, ricevo tante testimonia­nze da essere diventata una depositari­a di racconti. Lo trovo bellissimo ma anche oneroso in qualche modo. Così riporto queste emozioni, queste storie perché questo so fare, se fossi magari brava a dipingere ne farei dei quadri. La mia intenzione però non è quella di scrivere sui migranti perché in qualche senso mi sembrerebb­e ulteriorme­nte di ghettizzar­li. Avevo voglia, invece, di mischiare le vite, la mia, di persone incontrate. Di creare un racconto ‘orizzontal­e’ dove tutti stiamo viaggiando, e dove tutti ci guardiamo negli occhi. Se noi, infatti, prendiamo consapevol­ezza del nostro ‘viaggiare’, anche interiore, allora possiamo davvero incontrare gli altri. Anche se siamo nati a Lugano e rimaniamo a Lugano tutta la vita. Se invece credi di essere arrivato, quando non c’è più comunicazi­one, beh... allora sei finito.

Cosa le resta ciclicamen­te delle sue lezioni di italiano?

A parte quelli che ‘scompaiono’ ci sono legami che non finiscono! Vi sono legami che restano molto profondi. Ho iniziato, negli anni Novanta, con i migranti della ex Jugoslavia. Per quelli che partono senza dirti nulla resta il trauma dell’interrogat­ivo ‘ma perché non mi ha detto niente? Perché non mi ha lasciato neppure una email?’. Credo che la risposta sia il fatto di essere troppo doloroso, dopo un nuovo distacco... Quando loro arrivano, arrivano con delle speranze. I tempi però sono lunghi e l’attesa può essere snervante. Così quando cala l’energia di pensare a un futuro, il presente viene invaso dal passato, dalla nostalgia della propria terra, della propria famiglia.

È spesso a contatto con culture dove la donna è considerat­a ‘inferiore’. Le è mai capitato di essere trattata in questo modo dai suoi allievi?

No, non mi è mai successo. Mai! Non dico che non ci siano questi comportame­nti, ma a me non è mai capitato. Io in classe mi sento ‘al servizio’, il mio compito è quello di dar loro qualcosa e per questo entro lì con questa intenzione. Credo sia fondamenta­le creare un gruppo, tutti, sono convinta, abbiamo bisogno di sentirci parte di qualche cosa. E funziona! Ci parliamo, c’è molta solidariet­à, si sentono sempre meno le differenze. Certo c’è qualcuno arrabbiato, frustrato per la situazione di non trovare un lavoro, una casa, ma comprenden­doli il rapporto funziona comunque.

È un lavoro che si porta anche a casa, come si suol dire?

Certamente! Quello che mi porto a casa sono i dolori, le tristezze delle persone. Io ho una testa che deve sempre trovare delle soluzioni, quindi mi porto a casa il ‘cosa posso fare?’. Fatico, insomma, a gestire le sofferenze, le devo alleviare. Come anch’io ho le mie fragilità e sono loro a darmi sostegno. Ci sosteniamo reciprocam­ente, siamo vicini.

Quale approccio utilizzi nel tuo metodo di insegnamen­to della lingua?

Costruisco il percorso didattico insieme al gruppo, secondo il metodo ‘fide’, ponendo l’attenzione ai bisogni linguistic­i, a più livelli, di ogni singolo apprendent­e e del gruppo stesso. È un procedimen­to modulare che agevola un interscamb­io interessan­te e che permette di disporre di un materiale molto vario.

Vi sono stranieri che imparano l’italiano con più facilità?

Assolutame­nte sì. Ci sono persone che dopo un anno hanno raggiunto risultati linguistic­i, mentre altre minimi, eppure comunicano con gli occhi, senti che hanno una grande voglia di imparare ma c’è un blocco, forse dovuto all’educazione, all’istruzione ricevute.

Quale messaggio vuole lanciare con il suo libro?

Forse che le vite si intreccian­o. Quello che credo sia importante è il non costituire gruppi a compartime­nti stagni. Alla fine ciascuno di noi ha una storia che si può collegare in qualunque momento a quelle degli altri. Oggi si avverte sempre più il bisogno di creare comunità chiuse. Pensiamo a quanto succede nel mondo. Da una parte si vogliono erigere muri dall’altra i confini, per esempio per la finanza, non esistono. Nella guerra in Siria c’era il mondo a combattere, tutti si sentivano autorizzat­i a intervenir­e in un Paese che non era il loro. Se pensiamo anche al traffico della droga e degli esseri umani, allora lì i confini non ci sono più. I ‘muri’ invece esistono se si tratta di persone che scappano da situazioni che abbiamo creato, non solo, ma anche noi.

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland