Se il politicamente corretto non serve
In quanto maschio di carnagione chiara, etero e cis-sessuale, relativamente in salute e senza particolari problemi economici, nato e cresciuto in uno Stato di diritto, ho sostanzialmente vinto la lotteria della vita: non i premi più alti, certo, ma ugualmente mi trovo davanti più cancelli aperti, o socchiusi, che completamente sbarrati.
Non li chiamerò tuttavia privilegi, perché il problema non è quello che, senza particolari meriti, ho, ma quello che gli altri, senza particolari colpe, non hanno. Non essere discriminati per genere e identità sessuale, colore della pelle, lingua, religione e quant’altro la meschinità umana possa escogitare per umiliare l’altro, non subire abusi di potere, avere accesso a un sistema sanitario e a protezioni sociali dovrebbe essere la normalità per tutti, ovunque nel mondo, non una fortunata eccezione. Non è così, ovviamente. E penso sia dovere morale di ognuno se non combattere queste ingiustizie, quantomeno non rendersene complici – perché non si può pretendere di rendere il mondo un posto migliore, ma noi stessi persone migliori forse sì. Solo che è più complicato di quel che potrebbe sembrare. Perché finché si tratta di non sputare in faccia a neri e omosessuali che si incontrano per strada o di non toccare il culo alle ragazze in ascensore, la cosa dovrebbe essere abbastanza pacifica. Del resto si tratta di azioni punibili (anche se non sempre effettivamente punite) dalla legge.
Ma questa disparità si manifesta anche in forme più sottili e in ambiti dove la legge tutto sommato è bene non entri. Pensiamo a convenzioni, allusioni, modi di dire, atteggiamenti, luoghi comuni che continuamente ricordano a coloro che non rientrano nel fortunato standard sociale che sono un’eccezione, che la società è costruita pensando innanzitutto a qualcun altro. Piccole cose che non so neanche bene come chiamare: “offese” o “umiliazioni” mi paiono infatti parole troppo grandi per gesti innocenti come – cito da recenti fatti di cronaca – essersi dipinti la faccia di nero a un carnevale, chiedere a qualcuno da dove proviene, riferirsi a una donna per nome mentre gli uomini sono cognome se non addirittura titolo di studio. Solo che paiono parole troppo grosse a me, che come detto ho vinto la lotteria della vita e non ho idea di come ci si senta a essere continuamente squadrati – e magari anche fermati dalle autorità, o peggio – per il colore della pelle, a dover snocciolare quotidianamente alberi genealogici per saziare le curiosità del vicino magari, lui sì, nato in un altro Paese, a sentirmi spiegare le cose con condiscendenza perché certamente anche con due dottorati il primo maschio che passa ne sa più di me. Posso solo immaginare tutto questo e, per quanto esercizio utile, è certamente anche limitato – e sono sicuro che vi siano molti altri fastidi quotidiani (chiamiamoli così) che a me non vengono neanche in mente. E che sarei lieto di scoprire. Perché alla fine il tanto vituperato politicamente corretto è tutto qui: non mancare di rispetto agli altri. Poi possiamo discutere sull’importanza del contesto, se il marchio di infamia non sia in alcuni casi eccessivo (probabilmente sì), se il rispetto per una persona debba tradursi nel rispetto di tutte le sue azioni e opinioni (sicuramente no), ma il nocciolo rimane. E risposte come “ma si è sempre fatto/detto così” o “non intendevo nulla di male” certo aiutano a distinguere tra cattiveria e leggerezza, ma non possono diventare un alibi universale: non sapevi, d’accordo; ma ora che sai, che ne dici di essere una persona migliore?