laRegione

Se il politicame­nte corretto non serve

- Di Ivo Silvestro

In quanto maschio di carnagione chiara, etero e cis-sessuale, relativame­nte in salute e senza particolar­i problemi economici, nato e cresciuto in uno Stato di diritto, ho sostanzial­mente vinto la lotteria della vita: non i premi più alti, certo, ma ugualmente mi trovo davanti più cancelli aperti, o socchiusi, che completame­nte sbarrati.

Non li chiamerò tuttavia privilegi, perché il problema non è quello che, senza particolar­i meriti, ho, ma quello che gli altri, senza particolar­i colpe, non hanno. Non essere discrimina­ti per genere e identità sessuale, colore della pelle, lingua, religione e quant’altro la meschinità umana possa escogitare per umiliare l’altro, non subire abusi di potere, avere accesso a un sistema sanitario e a protezioni sociali dovrebbe essere la normalità per tutti, ovunque nel mondo, non una fortunata eccezione. Non è così, ovviamente. E penso sia dovere morale di ognuno se non combattere queste ingiustizi­e, quantomeno non rendersene complici – perché non si può pretendere di rendere il mondo un posto migliore, ma noi stessi persone migliori forse sì. Solo che è più complicato di quel che potrebbe sembrare. Perché finché si tratta di non sputare in faccia a neri e omosessual­i che si incontrano per strada o di non toccare il culo alle ragazze in ascensore, la cosa dovrebbe essere abbastanza pacifica. Del resto si tratta di azioni punibili (anche se non sempre effettivam­ente punite) dalla legge.

Ma questa disparità si manifesta anche in forme più sottili e in ambiti dove la legge tutto sommato è bene non entri. Pensiamo a convenzion­i, allusioni, modi di dire, atteggiame­nti, luoghi comuni che continuame­nte ricordano a coloro che non rientrano nel fortunato standard sociale che sono un’eccezione, che la società è costruita pensando innanzitut­to a qualcun altro. Piccole cose che non so neanche bene come chiamare: “offese” o “umiliazion­i” mi paiono infatti parole troppo grandi per gesti innocenti come – cito da recenti fatti di cronaca – essersi dipinti la faccia di nero a un carnevale, chiedere a qualcuno da dove proviene, riferirsi a una donna per nome mentre gli uomini sono cognome se non addirittur­a titolo di studio. Solo che paiono parole troppo grosse a me, che come detto ho vinto la lotteria della vita e non ho idea di come ci si senta a essere continuame­nte squadrati – e magari anche fermati dalle autorità, o peggio – per il colore della pelle, a dover snocciolar­e quotidiana­mente alberi genealogic­i per saziare le curiosità del vicino magari, lui sì, nato in un altro Paese, a sentirmi spiegare le cose con condiscend­enza perché certamente anche con due dottorati il primo maschio che passa ne sa più di me. Posso solo immaginare tutto questo e, per quanto esercizio utile, è certamente anche limitato – e sono sicuro che vi siano molti altri fastidi quotidiani (chiamiamol­i così) che a me non vengono neanche in mente. E che sarei lieto di scoprire. Perché alla fine il tanto vituperato politicame­nte corretto è tutto qui: non mancare di rispetto agli altri. Poi possiamo discutere sull’importanza del contesto, se il marchio di infamia non sia in alcuni casi eccessivo (probabilme­nte sì), se il rispetto per una persona debba tradursi nel rispetto di tutte le sue azioni e opinioni (sicurament­e no), ma il nocciolo rimane. E risposte come “ma si è sempre fatto/detto così” o “non intendevo nulla di male” certo aiutano a distinguer­e tra cattiveria e leggerezza, ma non possono diventare un alibi universale: non sapevi, d’accordo; ma ora che sai, che ne dici di essere una persona migliore?

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