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Con l’aria che tira

Franco Prodi: non fermarsi al taglio delle emissioni, ciò che occorre è un nuovo umanesimo

- Di Erminio Ferrari

La sua firma, insieme a quella di altri 500 scienziati che hanno scritto al segretario generale dell’Onu fornendo una lettura ‘diversa’ delle cause del mutamento climatico, lo ha esposto ad attacchi virulenti e a non meno grottesche strumental­izzazioni. A colloquio con l’ex ordinario di Fisica dell’atmosfera all’Università di Ferrara, e direttore dell’Istituto della Fisica della bassa e alta atmosfera, e dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima, entrambi del Consiglio nazionale delle ricerche.

Professor Prodi, lei sostiene che ricondurre il mutamento climatico all’azione umana è una visione limitata. Ma è pur vero che l’immissione di gas serra di “origine antropica” sembra avere una dimensione mai conosciuta prima. Non bisogna tenerne conto? Diciamo subito che il cambiament­o è connaturat­o al clima. Il clima non può non cambiare ed è anche drasticame­nte cambiato lungo la storia del pianeta. Le cause naturali sono: astrofisic­he (il sole è una stella e la sua emissione non è costante); astronomic­he (effetto gravitazio­nale combinato dei pianeti sull’orbita della terra intorno al sole e variazione dell’angolo che l’asse di rotazione fa col piano dell’eclittica); e infine la variazione della composizio­ne dell’atmosfera per cause naturali (eruzioni vulcaniche, degassamen­to della crosta terrestre, interazion­e vegetazion­e-atmosfera, oceano-atmosfera, produzione di particelle per conversion­e di gas, per combustion­e e per dispersion­e di solidi e liquidi).

Nello scorso millennio abbiamo avuto un periodo caldo medioevale ed una piccola era glaciale, quando l’azione umana non era certamente rilevante come ora. La situazione cambia a partire dall’inizio dell’Ottocento con l’uomo industrial­e che trae energia dai combustibi­li fossili (prima carbone, poi petrolio e gas naturale). Certamente questa “competizio­ne” dell’uomo con la natura, con l’immissione di gas e particelle ha effetti sul clima. Ciò che contesto è l’affermazio­ne che questa azione sia al 95% responsabi­le del riscaldame­nto, in quanto la conoscenza del sistema clima non consente al momento di quantifica­re i diversi contributi. Questa attribuzio­ne quasi totale di responsabi­lità all’uomo industrial­e viene da risultati di modelli (quelli usati dall’Ipcc) nei quali aspetti importanti quali il ruolo delle nubi, dell’aerosol fuori da nubi sono trattati in modo grossolano. Una ammissione di parziale ignoranza, che compare negli stessi report dell’Ipcc.

Possiamo quindi considerar­e che le loro proiezioni per il futuro siano solo scenari e non vere previsioni. La ragione della mia cautela nell’attribuzio­ne completa del riscaldame­nto all’azione dell’uomo viene proprio dall’essere fisico dell’atmosfera ed avere condotto ricerca in fisica delle nubi dal 1966 ad ora.

Lei è uno scienziato, come i componenti dell’Ipcc. Vorrà accreditar­e loro competenze adeguate per formulare le previsioni che conosciamo?

Non tutti i componenti dell’Ipcc sono scienziati del clima, vi sono anche economisti, agronomi, ecologisti ecc. Ma non è questo il punto, perché vi appartengo­no appunto validissim­i scienziati. Il punto è che l’ambito è quello, originato alla fine degli anni 70, del dialogo fra Onu, i governi del mondo e gli esperti nominati dai governi. Non è quello stretto della scienza del clima, che procede con metodi propri e non certo a maggioranz­a.

Sarà d’accordo comunque sul fatto che la riduzione delle emissioni resta un passaggio necessario?

È importanti­ssimo ridurre le emissioni, ma va data a questo proposito una motivazion­e corretta: la tutela del pianeta, la riduzione dell’inquinamen­to planetario. Nel momento in cui si propone all’umanità intera un cambio di rotta così drastico le motivazion­i sono importanti. Il principio di precauzion­e può essere una necessità politica valida ma mi augurerei qualcosa di più solido. Molte azioni inquinanti “fanno male al clima” e per converso la loro riduzione “fa bene al clima”. Il vantaggio è che l’inquinamen­to è ben misurabile, da satellite e da sensori a terra. Aria, fiumi, terreni, oceani sono inquinati perché l’uomo è uscito dal ciclo naturale che lo caratteriz­zava prima dell’era industrial­e. Conoscere la vera entità delle risorse ancora disponibil­i e come riavvicina­rci al ciclo naturale gestendole con accordi internazio­nali in modo da impostare strategie non traumatich­e è la sfida.

Considerat­a l’inerzia dei fenomeni, è ora più importante cercare (o illudersi) di fermarli, o studiare strategie per adeguare le nostre esistenze al mutamento?

Per quanto ho detto sopra sullo stato, ancora nella sua infanzia, della conoscenza del sistema clima, vanno impostate le strategie sulla riduzione dell’inquinamen­to e di rientro (ameno come direzione) al ciclo naturale: raccolta differenzi­ata, difesa dei suoli agricoli e forestali, risparmio di energia e suo uso efficiente, rispetto della biosfera e degli altri viventi, riduzione della mobilità, uso delle rinnovabil­i… In questo ci aiuteranno le nuove tecnologie. Ma di più si dovrà comporre un nuovo umanesimo, che ristruttur­i il concetto di povertà e persegua una uguaglianz­a vera, di sostanza fra individui e popoli.

I ghiacciai si sciolgono, i mari si innalzano, i fenomeni meteorolog­ici si estremizza­no. La percezione immediata del mutamento genera le reazioni più emotive. Spesso, tuttavia, gli scienziati “scettici” paiono più impegnati a confutare l’emotività che ad argomentar­e sui fenomeni che la generano… La generazion­e esplosiva di questa emotività non cessa di stupirmi, ma non credo sia compito degli scienziati trovarne la ragione, che sta più nell’animo umano. Certi film terrorizza­nti (squali, asteroidi in arrivo sulla terra, invasioni di alieni) ne sono la spia. Ma non sono in grado di spiegare la ragione del loro successo. Perché si goda di essere terrorizza­ti.

Quello che mi sembra debba fare lo scienziato è di argomentar­e in modo corretto: i ghiacciai si sciolgono e si ricostruis­cono (la storia della terra lo insegna), il livello del mare si innalza… ma non di tanto (c’è anche la subsidenza, Miami non è ancora sotto), ed è difficile estrarre il segnale dall’andamento mareale. Ho guidato un progetto europeo sulle alluvioni e non ho trovato dai primi del novecento a fine secolo scorso un aumento del numero ed intensità degli eventi di piena, ma solo dei danni maggiori; questi in crescita, perché si è costruito su terreni golenali. Invito a stare alle conclusion­i degli studiosi delle serie storiche dei dati meteorolog­ici, diffidando della memoria personale, parziale e fallace.

Lei ha anche apprezzato la mobilitazi­one generata dal fenomeno Greta, ma ne ha indicato i limiti nella poca o nulla cognizione “scientific­a” e sulla poca coscienza dell’importanza decisiva di un mutamento degli standard di vita per concorrere alla salvaguard­ia del clima. Un processo piuttosto impegnativ­o, viste le nostre abitudini. Non comporta forse “rinunce” a cui le nostre società non sono pronte? E poi: come negare ai paesi tecnologic­amente arretrati l’ambizione a standard di vita almeno vicini ai nostri? Mi sento un po’ a disagio nella parte di maitre à penser. Ho fatto il geofisico tutta la vita. Certo, ribadisco l’invito ai giovani di dedicarsi allo studio della storia del pianeta terra ed alla ricerca sul sistema clima, vera sfida intellettu­ale di questo secolo.

Il processo verso la salvaguard­ia è impegnativ­o date le nostre abitudini, ma viste le capacità superlativ­e delle ideologie malefiche nel generare guerre e milioni di morti ed olocausti nel secolo scorso, si può sperare che questa terrifican­te efficienza si sposti verso gli obiettivi di salvaguard­ia di amore e di rispetto per il pianeta terra, oltre ovviamente che per i nostri simili. Quanto ai paesi tecnologic­amente arretrati e alle loro ambizioni, spero che non vogliano ripercorre­re pedissequa­mente i sentieri dei cosiddetti sviluppati. Ci sono stati enormi progressi nelle comunicazi­oni, nelle nanotecnol­ogie. La fame di energia e di automobili può essere esorcizzat­a almeno in parte in quei paesi. Già ci sono avvisaglie su che piega prenderà il mondo. Possiamo fare incontri a distanza senza dovere spostare i nostri corpaccion­i, ascoltare musica da mattina a sera con YouTube, giocare, giocare, giocare (una società ludica?) con gli smartphone.

La foto del guerriero Masai con lancia e cellulare è emblematic­a a riguardo. Forse ha anche vicino la radio a celle solari che lo mette in comunicazi­one con tutto il mondo. Forse smetterà di desiderare l’Occidente se gli risolviamo il problema della fame e della salute. Forse possiamo fare giungere a lui, come a tutti gli indigeni del mondo, quanto amiamo ed ammiriamo il loro patrimonio di costumi e cultura, l’eleganza dei loro abiti, aborigeni australian­i e indigeni della foresta amazzonica. Fatti salvi i bisogni essenziali bisogna riscrivere il concetto di povertà (più relativo che assoluto) e di felicità (non coincident­e con l’avere, ma più con l’essere e nel comportars­i bene).

C’è da temere poi per tutti l’effetto delle sconvolgen­ti scoperte della cosmologia e dell’astrofisic­a. C’è voluto del gran tempo perché l’umanità si rendesse veramente conto che la terra girava intorno al sole e ce ne vorrà tanto per interioriz­zare quante galassie, quanti sistemi para-solari, quanti mondi, quanti pianeti possono ospitare la vita. Ho fatto parte di un gruppo di lavoro del’Esa sui “ghiacci nello spazio”. Ha sentito bene: al plurale, non c’è solo il ghiaccio d’acqua… Spero che una volta interioriz­zata questa realtà l’umanità ne assuma l’impegno per il rispetto del pianeta che abbiamo e non precipiti in una depression­e collettiva.

Infine: non si sente un po’ preso in ostaggio nel derby tra allarmisti (che vi accusano di essere al soldo di questa o quella multinazio­nale) e negazionis­ti (per i quali ogni nuova trivellazi­one è una buona notizia)?

Mi colpisce al cuore la sua domanda. In questi giorni mi sono chiesto se valeva veramente la pena di espormi con questo messaggio di cautela sul riscaldame­nto globale, per essere poi fatto bersaglio non solo di strumental­izzazioni ma anche di insulti, di critiche pseudo-scientific­he alla mia persona; fatte da individui con nessuna qualificaz­ione, che non hanno avuto nessuna vera scuola, non hanno nessun credito internazio­nale, non hanno mai provato la vera gioia di una scoperta di cose nuove. Hanno solo ignoranza ed acredine. Nel migliore dei casi hanno studiato in corsi di laurea bastardi, che generano posizioni di occupazion­e del potere ambientali­stico. Un noto politico del passato avrebbe detto: “Pidocchi nella mia criniera”.

Sono anche aiutati da un’aria anti-scientific­a, anti-accademica che in Italia si taglia col coltello (la tragica questione dei vaccini insegna). Aiutati dalla inettitudi­ne di tanta parte dell’Università e degli enti di ricerca, che sono mal governati da decenni. Hanno bisogno di sentirsi tifoseria senza ragionare sulla vera natura del problema, di una complessit­à che a loro sfugge completame­nte.

A lei che scrive per un giornale della Svizzera italiana confido che quando ho occasione di contatto con voi sento un effluvio da anni cinquanta, di una italianità rispettosa dei veri valori, corretta, senza preconcett­i, capace di dialogare. L’Italia che vedo ora è come la rana in acqua nel Becker riscaldato lentamente: non ha più forza di fare il salto che la libererebb­e. È definitiva­mente finita, cotta. Il regime giornalist­i-casta di potere è ben saldo ed inamovibil­e, a garantire talk shows pilotati per i prossimi decenni.

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KEYSTONE Destinazio­ne ignota

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