La pazzia che unisce il Libano
Intervista alla redattrice capo del quotidiano di Beirut ‘L’Orient-Le Jour’ sull’origine della protesta Le rivendicazioni delle piazze riguardano ormai il cambiamento dell’intero ceto politico, ma non c’è un movimento organizzato
Il simbolo della rivoluzione libanese è anche un Dj di Tripoli. Sabato sera si è affacciato da un balcone della città a maggioranza sunnita e ha sparato musica techno a tutto volume per far ballare la piazza. «Mai visto qualcosa del genere a Tripoli. In redazione abbiamo pensato che fosse un pazzo, perché fino a qualche settimana fa una cosa del genere in quella città e in quel contesto politico non sarebbe stata concepibile». A parlare è Émilie Sueur, redattrice capo del quotidiano libanese di lingua francese ‘L’Orient-Le Jour’. Con tutti i suoi colleghi sta seguendo da vicino quanto avviene nel Paese e dal suo osservatorio privilegiato non esita a definire “straordinaria” la pacifica mobilitazione oceanica che da giovedì sera ha riempito le strade di tutto il Libano di persone che chiedono la caduta del governo e la fine dello stile di politica basata sul clientelismo. «Questo è un Paese storicamente diviso: tra confessioni religiose, tra visioni politiche, tra gruppi etnici. Tanto che, per poter governare, tutti gli esecutivi hanno dovuto essere di unità nazionale: costruiti tenendo conto di ogni piccola sensibilità. La trasversalità della rivolta è quindi una cosa assolutamente inedita: sono cadute tutte le barriere, da quelle confessionali a quelle generazionali: poveri, ricchi, giovani, meno giovani, sciiti, sunniti, cristiani sono tutti in piazza», racconta a ‘laRegione’ Sueur.
Tutto è iniziato giovedì da un annuncio apparentemente banale: la tassazione dei messaggi scambiati via internet. «È una misura simbolica, certo», commenta la collega dell’‘Orient-Le Jour’, ma ha toccato un nervo scoperto. «Da noi le tariffe telefoniche sono tra le più care al mondo. Ciò significa che molte persone con poca disponibilità finanziaria devono per forza far capo a sistemi come WhatsApp per evitare di ritrovarsi con fatture che non possono permettersi. Tassare i messaggi significava quindi andare a prendere soldi alle fasce più povere della popolazione». È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Un vaso che negli anni è stato alimentato dalla frustrazione di una crisi economica che si trascina da tempo e che quest’estate si è aggravata con una forte riduzione nella disponibilità di dollari, moneta corrente nel Paese a fianco della lira. Un anno fa, a Parigi, la Francia aveva indetto una conferenza per aiutare il Paese mediorientale a risollevarsi. I finanziatori avevano promesso 11 miliardi euro, a patto che il governo libanese avesse messo in atto misure per ridurre il deficit. «Per riuscirci, il governo, invece di tentare di contenere i costi, ha soprattutto puntato all’aumento delle entrate, introducendo nuove tasse», spiega Sueur dal suo ufficio di Beirut. Poi, come detto, l’annuncio della tassa sui messaggi e il vaso che è debordato.
«È la prima volta che si percepisce un’unita nazionale. La speranza di cambiare qualcosa oggi è più forte che mai. È una rivolta della dignità: la gente, nelle regioni più povere, è stufa di dover andare dal capo politico locale per elemosina- re un aiuto ogni 15 del mese. Vuole vivere in una società normale, senza clientelismo, dove ci si guadagna la pagnotta grazie al lavoro».
In passato il Libano aveva gia visto manifestazioni di piazza. L’ultima nel 2005 dopo l’assassinio del presidente Rafic Hariri. «Ma in quel caso il Paese era diviso tra chi chiedeva ai siriani di andarsene e chi voleva rimanessero. Adesso invece per la prima volta la mobilitazione mette d’accordo tutti. La vera sfida ora è che la piazza si organizzi. Perché, fatta eccezione per la principale richiesta di dimissioni del governo, ogni gruppo ha delle pretese secondarie diverse e a volte inconciliabili: si va dalla protezione dell’ambiente all’emancipazione femminile». Una soluzione va trovata subito, perché «il Paese non può andare avanti così per molto: le scuole sono chiuse, le banche sono chiuse e qui non ci si può permettere questo lusso. La situazione economica deve essere risolta rapidamente». Nel frattempo «c’è anche chi vorrebbe tornare al lavoro, ma altri gli ricordano che il momento giusto per cambiare le cose è ‘ora o mai più’».