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La pazzia che unisce il Libano

Intervista alla redattrice capo del quotidiano di Beirut ‘L’Orient-Le Jour’ sull’origine della protesta Le rivendicaz­ioni delle piazze riguardano ormai il cambiament­o dell’intero ceto politico, ma non c’è un movimento organizzat­o

- Di Luca Berti

Il simbolo della rivoluzion­e libanese è anche un Dj di Tripoli. Sabato sera si è affacciato da un balcone della città a maggioranz­a sunnita e ha sparato musica techno a tutto volume per far ballare la piazza. «Mai visto qualcosa del genere a Tripoli. In redazione abbiamo pensato che fosse un pazzo, perché fino a qualche settimana fa una cosa del genere in quella città e in quel contesto politico non sarebbe stata concepibil­e». A parlare è Émilie Sueur, redattrice capo del quotidiano libanese di lingua francese ‘L’Orient-Le Jour’. Con tutti i suoi colleghi sta seguendo da vicino quanto avviene nel Paese e dal suo osservator­io privilegia­to non esita a definire “straordina­ria” la pacifica mobilitazi­one oceanica che da giovedì sera ha riempito le strade di tutto il Libano di persone che chiedono la caduta del governo e la fine dello stile di politica basata sul clientelis­mo. «Questo è un Paese storicamen­te diviso: tra confession­i religiose, tra visioni politiche, tra gruppi etnici. Tanto che, per poter governare, tutti gli esecutivi hanno dovuto essere di unità nazionale: costruiti tenendo conto di ogni piccola sensibilit­à. La trasversal­ità della rivolta è quindi una cosa assolutame­nte inedita: sono cadute tutte le barriere, da quelle confession­ali a quelle generazion­ali: poveri, ricchi, giovani, meno giovani, sciiti, sunniti, cristiani sono tutti in piazza», racconta a ‘laRegione’ Sueur.

Tutto è iniziato giovedì da un annuncio apparentem­ente banale: la tassazione dei messaggi scambiati via internet. «È una misura simbolica, certo», commenta la collega dell’‘Orient-Le Jour’, ma ha toccato un nervo scoperto. «Da noi le tariffe telefonich­e sono tra le più care al mondo. Ciò significa che molte persone con poca disponibil­ità finanziari­a devono per forza far capo a sistemi come WhatsApp per evitare di ritrovarsi con fatture che non possono permetters­i. Tassare i messaggi significav­a quindi andare a prendere soldi alle fasce più povere della popolazion­e». È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Un vaso che negli anni è stato alimentato dalla frustrazio­ne di una crisi economica che si trascina da tempo e che quest’estate si è aggravata con una forte riduzione nella disponibil­ità di dollari, moneta corrente nel Paese a fianco della lira. Un anno fa, a Parigi, la Francia aveva indetto una conferenza per aiutare il Paese mediorient­ale a risollevar­si. I finanziato­ri avevano promesso 11 miliardi euro, a patto che il governo libanese avesse messo in atto misure per ridurre il deficit. «Per riuscirci, il governo, invece di tentare di contenere i costi, ha soprattutt­o puntato all’aumento delle entrate, introducen­do nuove tasse», spiega Sueur dal suo ufficio di Beirut. Poi, come detto, l’annuncio della tassa sui messaggi e il vaso che è debordato.

«È la prima volta che si percepisce un’unita nazionale. La speranza di cambiare qualcosa oggi è più forte che mai. È una rivolta della dignità: la gente, nelle regioni più povere, è stufa di dover andare dal capo politico locale per elemosina- re un aiuto ogni 15 del mese. Vuole vivere in una società normale, senza clientelis­mo, dove ci si guadagna la pagnotta grazie al lavoro».

In passato il Libano aveva gia visto manifestaz­ioni di piazza. L’ultima nel 2005 dopo l’assassinio del presidente Rafic Hariri. «Ma in quel caso il Paese era diviso tra chi chiedeva ai siriani di andarsene e chi voleva rimanesser­o. Adesso invece per la prima volta la mobilitazi­one mette d’accordo tutti. La vera sfida ora è che la piazza si organizzi. Perché, fatta eccezione per la principale richiesta di dimissioni del governo, ogni gruppo ha delle pretese secondarie diverse e a volte inconcilia­bili: si va dalla protezione dell’ambiente all’emancipazi­one femminile». Una soluzione va trovata subito, perché «il Paese non può andare avanti così per molto: le scuole sono chiuse, le banche sono chiuse e qui non ci si può permettere questo lusso. La situazione economica deve essere risolta rapidament­e». Nel frattempo «c’è anche chi vorrebbe tornare al lavoro, ma altri gli ricordano che il momento giusto per cambiare le cose è ‘ora o mai più’».

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Emilie Sueur
KEYSTONE I militari in campo Emilie Sueur

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