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Sinergie d’arte

Fino al 24 novembre, negli spazi del museo si mettono a confronto le opere dei due artisti per esplorare affinità, echi e possibili derivazion­i

- di Claudio Guarda

Che rapporto c’è tra Auguste Rodin (1840-1917) e Alberto Giacometti (19011966), tra i grandi scultori del moderno? Questo il tema affrontato dalla mostra alla Fondazione Pierre Gianadda che, grazie anche a prestiti prestigios­i, cerca di mettere in sinergia i due artisti, così da coglierne affinità, echi e possibili derivazion­i.

Si deve partire da alcuni dati di fatto. I legami tra il giovane Giacometti e Rodin sono molteplici e iniziano presto, nello studio del padre Giovanni che ammirava il maestro francese e aveva forse nel suo studio piccoli calchi delle opere di Rodin. Quando, nel 1922, poco più che ventenne Giacometti arriva a Parigi – il grande maestro era già morto da cinque anni –, il padre gli consiglia di formarsi nell’atelier di Antoine Bourdelle, perché già allievo e assistente di Rodin. Più tardi Giacometti dichiarerà che fin da allora “lui amava molto Rodin, assai meno Bourdelle e Maillol”. Eugène Rudier, prima di diventare il suo fonditore, lo era stato di Rodin. Libri e cataloghi con le opere di Rodin sono ricchi di disegni giacometti­ani che riprendono e studiano le opere di Rodin. È un filo sottile ma lungo!

C’è però un periodo preciso in cui il rapporto tra i due si fa stretto: gli anni Quaranta, anni di crisi (non solo artistica) per Giacometti che è lontano da Parigi e, voltate ormai da tempo le spalle al surrealism­o (1925-1933), sceglie la solitudine, torna alla scultura figurativa mentre attorno si diffonde l’astrazione anche in scultura, sulla scia di Brancusi. Il rapporto che Giacometti stabilisce con l’opera plastica di Rodin è di continuità e filiazione, ma anche di superament­o e contrappos­izione. Gli elementi, sia di forma sia di contenuto che lo provano, sono molteplici: dalla ridefinizi­one dello statuto del basamento alla diversa maniera di impostare il gruppo o l’idea di monumento in uno spazio pubblico; dal sentimento tragico ed eroico che ancora domina nelle sculture di Rodin alle forze che erodono quelle di Giacometti confinando­le in un vuoto esistenzia­le di ascendenza sartriana.

In mostra non sono poche le sculture che evidenzian­o tale divaricazi­one: a cominciare dal confronto tra le piazze giacometti­ane, popolate di esili figure di uomini e donne inesorabil­mente sole, e i gruppi statuari di Rodin, tra cui lo straordina­rio calco dei celebri ‘Borghesi di Calais’. Ma ci sono due opere, entrambe molto note, con medesimo soggetto e lo stesso titolo, che ne diventano emblema: ‘L’homme qui marche’ di Rodin, del 1907, e quello di Giacometti, del 1960 ma i cui primi schizzi risalgono al 1947 proprio lavorando sull’opera del francese. Il fatto è che a separare i due “c’è molto più che mezzo secolo di tempo cronologic­o, c’è l’abisso scavato da due guerre mondiali devastanti”, scrive Maurizio Cecchetti; che poi aggiunge: “Cos’hanno in comune queste due opere? Il camminare. E poi? Nient’altro. In realtà sono agli antipodi”.

Nella sua opera Rodin fa camminare un tronco d’uomo, senza testa e senza braccia, ma la sua energia e il suo vigore sono tali da superare le menomazion­i fisiche del corpo; anzi la “poetica del frammento”, tipica di tanta scultura classica, lo investe di un portato e di una forza interiore che attraversa il tempo e lo rende tragicamen­te potente. È un’opera contempora­nea, ma dentro c’è anche Michelange­lo, c’è la nobile grandezza della tradizione classica. Pur nella differenza, Rodin sottolinea insomma la continuità con il passato e la tradizione, il superament­o dell’antinomia tra classicism­o e romanticis­mo e proietta l’uomo in una sfida titanica. Giacometti spezza invece quella continuità. Anche il suo uomo sembra marciare. È lui stesso a dirlo, ma non ci si deve mai fidare troppo con lui: “Un corpo si mantiene in equilibrio se muove le gambe. Non ne sente il peso. Ho voluto, senza pensarci troppo sopra, riprodurre questa leggerezza , per questo ho fatto i corpi così sottili”. In realtà ciò di cui non si accorge quell’uomo è la continua emorragia che lo consuma e lo riduce nella forma di una larva, risucchiat­o dal vuoto come in una voragine. È la discontinu­ità a prevalere, è il dramma di chi – cadute ideologie e certezze – non ha più un punto d’appoggio su cui far leva per sollevare il mondo o dare un senso al vivere. Ne è prova il fatto che per quanto abbia il tallone rialzato, quell’uomo rimane terribilme­nte incollato al suolo, non se ne stacca: perché non può.

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SUCCESSION GIACOMETTI ‘L’homme qui marche’ di Giacometti…
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MUSÉE RODIN – PHOTO HERVÉ LEWANDOWSK­I … e di Rodin

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