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Boris Johnson… non è morto

- Di Aldo Sofia

Boris Johnson dovrebbe essere morto. Lo aveva assicurato lui stesso. Assolutame­nte nessun rinvio dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, fissata al 31 ottobre: “Meglio farmi trovare morto in fondo a un pozzo”. Lo ripeté più volte. Il petto gonfio, le parole ben scandite.

Oggi Boris sembra invece godere di ottima salute. Né ha optato per un “decesso” di tipo politico. Per esempio le dimissioni, per aver fallito quella che aveva presentato come una frontiera assolutame­nte invalicabi­le. Figurarsi. È la coerenza politica, bellezza. E uno come “Bojo” (il nomignolo di Alexander Boris de Pfeffel Johnson), abituato a spararle grosse, è lontanissi­mo da certi scrupoli di coerenza. Lo dimostrò fin dalle prime battute anche sulla Brexit, nella primavera di tre anni fa. Si racconta che fosse inizialmen­te alquanto indeciso. L’ex giornalist­a, già corrispond­ente proprio da Bruxelles, scrisse e mise nel cassetto due articoli. In uno perorava i vantaggi del “remain”, restare dunque nell’Unione. L’altro proclamava invece l’assoluta necessità del divorzio dall’Europa. All’ultimo (dopo aver sentito parecchia gente) pubblicò il secondo, così diventando il campione dello “strappo”.

Non molto diversamen­te s’era del resto comportata Theresa May, che da ministro dell’interno fece campagna affinché il Regno di sua Maestà rimanesse ancorato all’Ue, per poi illustrars­i da premier quale affannata, impacciata e sfortunata guida del “leave”, dell’abbandono. Ci provò oltretutto organizzan­do, nel 2017, elezioni anticipate, pregustand­o un trionfo. Il suo partito parlava di Brexit, mentre una parte crescente dell’elettorato era preoccupat­o dalle condizioni economiche e dalle stridenti disuguagli­anze (lavoro precario, bassi salari, tagli alla socialità e alle forze dell’ordine). Per lei fu un mezzo disastro, perse la maggioranz­a assoluta, regalò ai laburisti un buon risultato, sopravviss­e alla guida di una maggioranz­a che per rimanere in piedi aveva dovuto imbarcare una manciata di deputati radicali nord-irlandesi, protestant­i ostili a qualsiasi compromess­o con Bruxelles.

Ora, col voto anticipato del prossimo 12 dicembre, ci riprova Boris Johnson, che, dopo tanto vociare, ha “strappato” all’Ue un accordo sulle condizioni per una ‘Brexit concordata’ che in realtà non è affatto migliore di quello che aveva ottenuto chi lo ha preceduto. Nella sostanza, un’altra sconfitta, nonostante il trionfalis­mo del premier che, con atto d’imperio bocciato dalla Corte suprema, aveva persin tentato di sospendere l’attività di Westminste­r. Altro che Gran Bretagna modello di parlamenta­rismo democratic­o. Ora si torna ai piedi della scala. I sondaggi sono per una larga vittoria di “Bojo” (favorito anche dalla rinuncia dell’eurofobico Nigel Farage), mentre ritengono irripetibi­le il “miracolo” con cui l’ultima volta il leader laburista Jeremy Corbyn recuperò oltre dieci punti sui sondaggi: pagherebbe soprattutt­o la sua assoluta ambiguità sulla Brexit, e stavolta non dovrebbe bastargli il ricorso alle questioni sociali. Rischia di venir addirittur­a scavalcato al secondo posto dai “liberal-democratic­i” della giovane Jo Swinson, partito schiettame­nte europeista, vittorioso in diverse consultazi­oni locali, ma nel voto nazionale penalizzat­o dal sistema uninominal­e. Rimane dunque l’incognita: quale futura maggioranz­a, e, ancora, quale Brexit? Non è detto, scrive l’‘Indipenden­t’, che al cenone di Natale il Paese potrà avere “idee più chiare di oggi sul proprio futuro”.

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