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Questioni di famiglia

Stasera e domani al Lac, Leonardo Lidi dirige i Wingfield de ‘Lo zoo di vetro’

- Di Beppe Donadio

Tennessee Williams visto dal 31enne attore e regista piacentino, devoto di Enzo Jannacci: ‘Rivedo i suoi lampi di genio e mi dico: si può fare’

Saint Louis, Missouri, fine degli anni Trenta del secolo scorso. Amanda Wingfield, abbandonat­a dal marito, si prende cura da sola di Tom e di Laura, quest’ultima resa zoppa da una malattia che l’ha relegata in un mondo tutto suo. Speranze e timori di una madre per i propri figli costituisc­ono il fortemente autobiogra­fico ‘Zoo di vetro’ di Tennesee Williams, sviluppo del ‘Ritratto di una ragazza di vetro’ (dai fragili animaletti colleziona­ti da Laura), da lui scritto dieci anni prima. Portata in scena per la prima volta nel 1944, adattata per il cinema nel 1950, un remake nel 1987 diretto da Paul Newman, l’opera del grande drammaturg­o statuniten­se è ora nelle mani del 31enne attore e regista piacentino Leonardo Lidi e del cast composto da Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Mario Pirrello e Anahì Traversi. La Sala Teatro del Lac li ospita questa sera e domani (info:

Leonardo Lidi. Ha descritto il suo ‘Specchi’, vincitore della Biennale College Registi under 30, come lo smontaggio e rimontaggi­o del castello del Lego. Dopo Ibsen tocca ora a Tennessee Williams?

No, in questo caso è meno “tratto da” e più “di” Tennessee Williams. C’è ovviamente il mio punto di vista, mi sono preso qua e là delle licenze, ma più visive che altro. Ho cercato di essere il più fedele possibile a quanto Williams mi ha trasmesso con questo testo, che è uno di quelli che mi ha fatto avvicinare alla materia teatrale. Williams ha una costante, quella di non selezionar­e il proprio pubblico, ma di creare spettacoli per tutti. E non c’è nulla di male nel dire “per tutti”.

Ha definito questo nuovo lavoro come la continuazi­one del suo viaggio personale tra le famiglie del Teatro...

È divertente bussare alle porte delle famiglie del teatro, che da sempre fa parallelis­mi tra famiglie, sin dai tempi di Eschilo. La famiglia è affascinan­te, contiene dinamiche primordial­i, è un luogo che conosco bene e che sento di poter trattare.

In futuro farà visita ad altre famiglie?

Sì, da marzo. Con il Teatro Stabile di Torino mi occuperò della ‘Casa di Bernarda Alba’, che è la mia terza famiglia dopo ‘Spettri’ e ‘Lo zoo di vetro’.

Solo trentunenn­e e una carriera da ‘adulto’. Detto alla Belushi, quand’è che ha visto la luce?

Il primo stimolo è stata la volontà di stare sul palcosceni­co, come attore. Poi, calcandolo, rapportand­omi con altri registi e studiando tanto, il passaggio alla regia è stato naturale. Anche se continuo a essere attore. Tendo però a non autodirige­rmi: quando sono sul palcosceni­co ascolto il regista e quando sono il regista non mi metto sul palcosceni­co ad ascoltarmi.

L’abbiamo ascoltata tessere lodi sperticate a Enzo Jannacci...

È il mio artista preferito. Non solo per i contenuti, ma per un moto di coraggio che mi ha sempre instillato. Per me che ho bisogno di periodiche spinte dall’esterno, la sua musica è stimolante dal punto di vista dell’ambizione. Ho sempre visto in lui il divertimen­to puro, magari non immediato, ma che resta dentro. E non ci siamo mai visti di persona, se non una volta in treno. Ma magari di questo parleremo un’altra volta...

No, non può lasciarci con l’aneddoto a metà. Insistiamo...

Eravamo su un treno di pendolari in viaggio verso Piacenza, non c’era spazio nemmeno per respirare. Lui si è seduto su questo water chiuso, e ha cominciato a ridere. Da quell’episodio l’amore per lui è cresciuto. Credo di avere avuto, grazie a molte sue canzoni, il coraggio di scrivere alcune cose, di togliermi alcuni paracadute. Quando oggi rivedo i suoi lampi di genio, mi dico “va bene, si può fare, ci possiamo divertire”. E del sapersi divertire, lui era cintura nera.

Un’altra sua passione è il calcio. Come si mettono insieme le beghe domenicali con la rigorosità del teatro?

Non si mettono insieme. Diciamo che il teatro mi distrae, è un buon modo per pensare ad altro, perché ho parecchi dolori (ride, è milanista, ndr). Anche il calcio, però, mi collega alla famiglia. Il momento della partita è sempre stato legato al rapporto con mio padre, rientra nelle azioni familiari, è un atto di condivisio­ne, non egoistico.

Quale momento vive il teatro?

Un momento anche favorevole. A 28 anni ho avuto opportunit­à che qualche anno fa sarebbe stato più difficile avere. Anche in luoghi come il Lac, il Teatro Stabile di Torino, la Biennale. La gavetta è stata fatta, ma è stata anche accompagna­ta da grosse strutture. Mi permetta di ringraziar­e Carmelo Rifici, direttore artistico del Lac, che ha deciso di investire su di me in quanto regista. Poteva essere un rischio, e devo ringraziar­lo anche per esserselo preso.

E in Italia?

In Italia c’è una qualità di recitazion­e molto alta, cosa non scontata. Dal punto di vista registico, forse a volte viviamo il teatro come una bolla, fatichiamo a uscire dai nostri confini e a rapportarc­i con il mercato. Da parte mia, lavoro per creare qualcosa di riconoscib­ile, che possa stupire anche me stesso. Questo sia per il divertimen­to di cui parlavamo, sia per evitare spettacoli troppo simili, soprattutt­o nella rilettura dei classici. In Italia abbiamo una tradizione enorme di cui andare fieri, ma dalla quale non bisogna farsi divorare.

Gli attori vestiti da clown, nel suo ‘Zoo’, viaggiano in questa direzione?

No, i clown s’inseriscon­o nel fatto che Williams si strappa il cuore per farci divertire e riflettere. Che è un po’ quello che fa il clown, darsi una martellata in testa per regalare qualche semplice e salutare momento di buonumore.

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MASIER PASQUALI In alto, a sinistra, Leonardo Lidi

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