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A trent’anni dalla caduta del muro

A trent’anni dalla caduta del muro / 1

- Di Uta Ruscher

Avevo sette anni quando ebbi il mio primo contatto con il nemico di classe. Essendo pensionata, la zia Erna, la nostra vicina settantenn­e, poteva recarsi a Berlino Ovest e un giorno mi portò un sacchetto a forma di ranocchia di coloratiss­ime gomme da masticare. Non dimentiche­rò mai l’odore che si sprigionò: dolce fruttato, un po’ vaniglia, un po’ lampone.

Un profumo mai sentito prima, tanto meno assaporato. La prima pallina era di un blu turchese. Me la passavo da un angolo all’altro della bocca con grande voluttà.

Il 9 novembre 1989 le autorità della Repubblica democratic­a tedesca annunciaro­no la riapertura delle frontiere con la Repubblica federale tedesca: è la fine della Cortina di ferro che, per 28 anni, ha diviso in due Berlino e il mondo. Trent’anni dopo la caduta del muro, ripercorri­amo quei giorni con una testimonia­nza, in tre parti, di Uta Ruscher.

A poco a poco diventò una massa liscia e morbida. In bagno, davanti allo specchio dell’armadietto, mi esercitai a fare le bolle.

Le gomme socialiste si spezzavano subito quando le trattavo con la mia lingua, questa invece era estremamen­te elastica e la prima bolla mi riuscì già al terzo tentativo. Poi, all’improvviso, un botto. Brandelli di gomma sui capelli, ovunque. Tentai subito di ripulirmi, ma senza successo. La gomma da masticare capitalist­a si rivelò un disastro colloso, indissolub­ilmente appiccicat­o ai miei capelli. Non funzionò né con l’acqua, né con il sapone, fallì persino Spee, il prodotto di punta socialista sopravviss­uto alla caduta del muro. Disperata afferrai le forbici e tagliai sempliceme­nte le ciocche attaccatic­ce.

Riposi il sacchetto-ranocchia nella mia cartella, impaziente di andare a scuola. Le mie amiche della prima elementare dovevano poter anche loro godere di questo miracolo capitalist­a. Distribuii con generosità le palline colorate. Venni travolta da manifestaz­ioni di simpatia. Invitata con largo anticipo di mesi a feste di compleanno o a scambi immediati. Tre tavolette di cioccolata dell’Est in cambio di una gomma da masticare dell’Ovest! Mi sentii in dovere di rendere attente le mie amiche sulle fastidiose conseguenz­e delle pericolose bolle, ma non mi diedero retta. E così, proprio a causa delle bolle, le gomme da masticare del nemico di classe ora erano sotto gli occhi di tutti. La gioia e le risa suscitate da una particolar­mente riuscita vennero bruscament­e interrotte dalla signora Schachmann, la nostra docente di classe.

“Chi ha portato le gomme da masticare?”, chiese severament­e.

Non tentai neppure di far finta di nulla e mi presentai. Mi strappò rabbiosame­nte di mano il sacchetto, mi afferrò per il braccio e mi portò nell’ufficio del direttore. Qui fui accolta da occhiate preoccupat­e e il direttore mi chiese conto del misfatto.

“Da chi hai ricevuto le gomme da masticare?”. A bassa voce raccontai di zia Erna. Sul viso della maestra un guizzo di sollievo. Anche il direttore le fece un cenno conciliant­e. Perlomeno il mio disgustoso sacchetto non proveniva da un parente occidental­e qualsiasi. Il direttore telefonò in ufficio a mia madre e le descrisse l’accaduto. Poi mi tese il telefono. Dovetti promettere di scusarmi immediatam­ente e di comportarm­i in modo irreprensi­bile per il resto della giornata scolastica. Naturalmen­te feci del mio meglio, mi guadagnai persino un’ape che la signora Schachmann stampigliò con enfasi sul mio quaderno.

Sulla via del ritorno a casa scoprii per terra sull’orlo della strada un piccolo oggetto biancoross­o. Sicurament­e una delle mie amiche non aveva saputo resistere alla tentazione e aveva provato segretamen­te una gomma da masticare rossa, ma poi però, vuoi per paura o per ribrezzo socialista l’aveva subito sputata, un autentico insensato sperpero. Prudenteme­nte mi guardai intorno. Nessuno che mi potesse denunciare.

Afferrai velocement­e la prelibatez­za biancoross­a e la misi in bocca. Scricchiol­ò un po’ sotto i denti, ma poi le sensazioni furono le stesse della prima gomma: fruttato dolce, un po’ vaniglia, un po’ lampone. Nascosi la gomma in una scatolina in fondo al mio armadio delle bambole. Perse abbastanza in fretta il suo sapore capitalist­a, ma la morbidezza e l’elasticità perduraron­o.

Arrivò il momento di buttare scatolina e contenuto nei rifiuti. A zia Erna non raccontai niente di quanto successo. Ogni tanto mi regalava un sacchetto di caramelle. Ma dall’Ovest non mi portò mai più nulla.

Negli anni seguenti mi dimostrai una brava allieva. Come tutti gli altri diventai pioniera. A quattordic­i anni, riluttante, entrai nella Freie Deutsche Jugend, la Libera Gioventù Tedesca. Nel frattempo la nostra situazione familiare era cambiata. Mia madre, e io con lei, vivevamo insieme a un uomo. Non un uomo come gli altri. Roland veniva da Berlino Ovest. Di solito si andava da Est a Ovest, da noi a casa fu il contrario.

Che cosa era accaduto? Roland voleva lottare a fianco dei nostri operai e dei nostri contadini per la conquista del potere da parte del proletaria­to? Sognava un mondo senza sfruttamen­to e avidità di guadagno? No, il motivo che spinse Roland a trasferirs­i dall’Occidente dorato in un’abitazione che dava su un buio cortile interno composto da due stanze senza bagno era di natura sempliciss­ima. Lui non voleva vivere senza mia madre, e poiché mia madre mai si sarebbe trasferita a Berlino Ovest, a lui non restò altro che fare le valigie. Le autorità della Ddr (Repubblica democratic­a tedesca) se ne rallegraro­no, avrebbero volentieri esibito Roland come esempio vivente di una propaganda socialista riuscita ma Roland si rifiutò: era venuto per amore e non per convinzion­e politica. Poco dopo essersi sistemato in casa nostra salì sul tetto e installò un’antenna televisiva. Fino a quel momento avevamo guardato la television­e dell’Est, adesso potevamo guardare Ard e Zdf, i programmi dell’Ovest. Ma fu solo l’inizio. I parenti di Roland ci venivano a trovare regolarmen­te e ci rifornivan­o di caffè, abiti e scatolette di tonno. Al figliol prodigo non doveva mancare niente. Mia madre cucinava e arrostiva quello che offrivano i nostri spacci. Stupefatti guardavamo i parenti arrivare dall’Ovest: avvolti in una nube di Acqua di Colonia, attraversa­vano il sudicio cortile interno, salivano su fino al nostro appartamen­to con i sacchetti del Centro commercial­e Karstadt e rovesciava­no il contenuto sul tavolo da cucina. Ora indossavo jeans autentici, possedevo un cancellino e scrivevo con un penna stilografi­ca Pelikan. Il massimo però era che non usavo più un sacchetto di stoffa, mi portavo in giro i miei arnesi in un fiammante sacchetto Karstadt.

Roland non faceva mistero delle sue opinioni. E non gli ci volle molto tempo per cominciare a criticare le carenze, la cattiva amministra­zione e la mancanza di libertà nella Ddr. Le sue opinioni ideologich­e venivano quotidiana­mente avvalorate dalla television­e occidental­e. E io fui sottoposta a una costante trasformaz­ione mentale. Affascinat­a stavo ad ascoltare i racconti dei nostri nuovi parenti, ammiravo la loro abbronzatu­ra di Maiorca, sgranavo gli occhi davanti ai cubi magici e ai Flummis, le luccicanti palline di gomma. Diventai provocator­ia e indiscipli­nata, a scuola non accettavo più la solfa socialista. Le mie orecchie erano da tempo pronte al passaggio. Mia madre cercò di impedire il peggio. “Perlomeno comportati come se tu fossi d’accordo su tutto. Si tratta del tuo futuro, della licenza di maturità!”.

Il direttore mi fece capire che la maturità era privilegio dei giovani di sicura fede socialista. Nel mio caso ciò significav­a dover diventare insegnante, l’educazione socialista delle nuove generazion­i aveva la massima priorità. Pur irritata mi dichiarai d’accordo. Ma pochi giorni dopo mi vendicai ed entrai a far parte della Comunità dei giovani della chiesa evangelica.

Sabine, la mia migliore amica, era battezzata e cresimata. Avendo dichiarato di professars­i cristiana, le fu negata la maturità. Da quel momento la accompagna­i in chiesa. Ogni mercoledì ci incontrava­mo con il parroco, pregavamo un po’ e discutevam­o molto. Imparai il Padre Nostro e qualche inno religioso. Apprezzavo il confronto aperto e le discussion­i. Ci scambiavam­o libri di filosofia, di letteratur­a e di arte provenient­i dall’Ovest, non una parola su Marx, Engels o Lenin.

I nostri incontri furono sconvolti da un evento che avrebbe cambiato radicalmen­te il mio modo di pensare. Helmut, il fratello quindicenn­e di Sabine, aveva minacciato in un volo interno la hostess con una posata di alluminio. Voleva imporre un atterraggi­o a Berlino Ovest, ma venne immediatam­ente arrestato dalla Stasi (i servizi segreti della Ddr). Non capivo più il mondo. Come era possibile dirottare un aereo con posate di alluminio? Sabine era fuori di sé. La Stasi aveva messo a soqquadro l’appartamen­to dei suoi genitori, li aveva sottoposti a un serrato interrogat­orio a più riprese e non aveva permesso loro di vedere Helmut. Fummo presi da paura, una paura diffusa e spugnosa che ci rese muti, indifesi e arrabbiati. In seguito a scuola dichiarai che mai sarei diventata insegnante. Volevo studiare biologia.

“Scordatelo”, disse il direttore. “A meno che…”. Voleva dire, a meno che tu non ti iscriverai al partito, ma ciò era fuori questione. Dunque niente carriera accademica! Sogno sfumato! Ma adesso, cosa ne sarebbe stato di me? Mia madre era alle lacrime. Per fortuna, dopo il conseguime­nto della maturità, trovai lavoro alla Veb Deutsche Schallplat­te, una casa discografi­ca. Lavoravo in un ufficio di fronte al Reichstag, a una trentina di passi dall’Occidente. In mezzo la “striscia della morte”, soldati con cani pastore e kalashniko­v passavano ogni giorno davanti alla mia finestra chiusa da inferriate, dietro di loro il muro. I berlinesi dell’Ovest ci gettavano uova marce e arance guaste, ci insultavan­o “maiali Stasi”. Le nostre attrezzatu­re e i nostri nastri ci facevano sospettare l’esistenza di un centro di intercetta­zione della Stasi. I miei colleghi sospettava­no un tunnel sotterrane­o. Questo tunnel sarebbe servito da collegamen­to fra l’Est e l’Ovest. Tuttavia la porta era sorvegliat­a a vista. Ci passavo davanti ogni giorno. La chiamavamo la “porta della libertà”.

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KEYSTONE Qui c’era un confine

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