Sopravvivere a Padre Bernard
È in sala ‘Grazie a Dio’ di François Ozon, storia di pedofilia nella diocesi di Lione Non è un documentario, ma poco cambia quando a parlare è la realtà dei fatti. Il film francese possiede alcune delle qualità che furono del ‘Caso Spotlight,’ Oscar 2016
È il 2013 quando Alexandre Guérin (Melvil Poupaud), sposato, padre di cinque figli e fervente cattolico, scopre che Bernard Preynat (Bernard Verley), il prete che credeva ormai morto e sepolto, officia ancora all’interno della diocesi di Lione. Alexandre non ha dimenticato gli abusi del cappellano degli scout del gruppo di Saint-Luc, e se gl’incubi di bimbo molestato se ne stanno chiusi in qualche angolo ben protetto della mente, lo sconcerto e la preoccupazione per il pedofilo ancora a contatto con giovani dell’età dei propri figli lo spinge a raccontare l’accaduto all’arcivescovo di Lione Philippe Barbarin (François Marthouret), ottenendo da questi – e da Régine Maire (Martine Erhel), psicologa incaricata della mediazione tra abusatore e abusato e simbolo di tristemente noti meccanismi autoprotettivi ecclesiastici – il nulla, se non un incontro a tre (abusato, abusatore e mediatrice) chiuso da un imbarazzante Ave Maria più Padre Nostro, mano nella mano.
A portare alla luce gli abusi commessi tra gli anni 80 e i 90 da Preynat, reo confesso sin da subito per la colpa ancor più grave di un’intera diocesi, è l’effetto a catena prodotto dalla denuncia in polizia di Alexandre e dalla tempra di altre due vittime, l’energico François Debord (Denis Ménochet) e il chirurgo Gilles Perret (Eric Caravaca), co-fondatori, insieme al primo, dell’associazione ‘La Parole Libérée’, bacino di prove per il caso giudiziario più tardi scaturito.
Non lontano da Boston
La fitta corrispondenza tra la vittima e la diocesi occupa tutta la prima parte di ‘Grazie a Dio’ (‘Grâce à Dieu’), film di François Ozon che ripercorre una vicenda talmente scottante in Francia, e riportata fedelmente (a cambiare sono soltanto i cognomi delle vittime), che per giungere al termine delle riprese – è Ozon a raccontarlo al Sole 24 Ore – si sono resi necessari un titolo e una storia provvisori, così da poter filmare in luoghi altrimenti non autorizzati. Un titolo, soprattutto, diverso da ‘Grazie a Dio’, estratto di una dichiarazione dell’arcivescovo Barbarin riportata integralmente nel film: “La maggior parte dei fatti, grazie a Dio, sono prescritti”.
Orso d’Argento/Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival internazionale del cinema di Berlino, il film di Ozon non è un documentario solo per volontà espressa delle vittime, sazie della molta e mai inutile esposizione mediatica in prima persona e interessate, piuttosto, a una cosa ‘alla Spotlight’. Nel 2015, infatti, ‘Il caso Spotlight’ di Tom McCarthy ricostruiva l’indagine giornalistica che aveva portato alla luce l’impressionante numero di casi di pedofilia insabbiati dall’Arcidiocesi di Boston (da cui, non senza sorpresa, negli Stati Uniti d’America, l’Oscar 2016 al miglior film e un secondo per la migliore sceneggiatura originale). ‘Spotlight’, non a caso, è omaggiato da una locandina appesa sui muri della gendarmeria nella quale si tiene il faccia a faccia tra il pedofilo francese e un altro dei sopravvissuti, il fragile e problematico Emmanuel Thomassin (Pierre-Emmanuel nella vita di tutti i giorni, qui affidato a Swann Arlaud, nel ruolo più crudo e toccante), che più di ogni altra vittima palesatasi rivela nella complessiva e non casuale instabilità psichica del proprio rapporto di coppia – una donna con il medesimo trascorso di abusi sessuali – i segni della violenza che non si cancella.
Dietro la tenda da campo
‘Grazie a Dio’ concede così una nuova occasione di costruttiva visibilità al calvario dei boy scout lionesi divenuti adulti, chi realizzandosi malgrado tutto, chi ancora nel buio del timore di passare alla storia come «la vittima di Padre Bernard», preferendo rimanere una voce al telefono, o un non meno drammatico scritto sul sito dell’associazione. Così, nella forma del film, Ozon riesce ad allargare i confini della cronaca giudiziaria francese, parzialmente limitanti per la gravità del caso. Investito dal carico emotivo di quanto ascoltato, dubbioso per sua stessa ammissione sul riuscire a riprodurre il dolore dei protagonisti attraverso qualcosa che non fosse un’intervista, il regista francese ha accolto l’invito di Alexandre prendendo le misure a ‘Spotlight’ e confezionando un film assai simile per fedeltà storica, tempi scenici ed efficacia del cast di attori.
Pur non dovendo svelare nulla – il colpevole è noto, ha confessato – la pellicola si dipana alla maniera del thriller, ma senza spettacolarità; non v’è pietà aggiunta a quanta ne esiste già, e fatta eccezione per Emmanuel sul quale gli abusi hanno prodotto guai anche fisici, i dettagli si fermano, come in ‘Spotlight’, all’ingresso di una stanza (o, in questo caso, davanti a una tenda da campo), risparmiando alle nefandezze umane il rischio di divenire gratuite, ma non meno squallide.
Nel raccontare il peggio, Ozon non indugia, non sottolinea, non amplifica e nemmeno giudica, dando voce a chi si sente in lotta «non contro la Chiesa, ma per la Chiesa», o a quel figlio che chiede al proprio padre se riesca ancora, dopo tutto, a credere in Dio.