laRegione

Un forte vento di ribellione

- Di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

La globalizza­zione atto II l’ha battezzata il politologo Bertrand Badie. È quella che si traduce nell’ondata di proteste e ribellioni che scuotono Paesi su scala mondiale. Milioni di persone che si riversano nelle strade di Hong Kong, Caracas, Santiago del Cile, Quito, Managua, Barcellona, Parigi, Beirut, Khartum in Sudan, o Bassora in Iraq. Stiamo di fatto assistendo a una sorta di primavera araba a dimensione planetaria facilitata da quell’enorme cassa di risonanza costituita dai “social”. Globalizza­zione atto II in quanto, secondo il politologo francese, siamo di fronte a un ribaltamen­to del paradigma della prima mondializz­azione che vedeva nella liberalizz­azione economica la premessa per il progresso sociale. Così non è stato: malgrado alcuni importanti benefici (come la riduzione della povertà estrema nel mondo), il crollo delle frontiere economiche ha portato a un aumento delle disuguagli­anze sociali, a un’instabilit­à e a un’incertezza che colpiscono in particolar­e le giovani generazion­i. Quelle che in Iraq ad esempio rappresent­ano i due terzi della popolazion­e: sono le stesse che a rischio della propria vita scendono nelle strade per denunciare le élite corrotte al governo dal 2003. Il caso iracheno è molto significat­ivo, perché a contestare il regime sciita sono gli sciiti stessi. Sciiti che denunciano i loro dirigenti: come dire che la componente sociale ha travolto quella tradiziona­le comunitari­sta. Certo, come evidenziat­o da un interessan­te dossier pubblicato qualche giorno fa da ‘Le Monde’, non è sempre possibile stanare un filo rosso, una logica tra le diverse situazioni. Cosa accomuna il movimento ormai esauritosi dei “Gilets jaunes” espression­e del malessere nelle zone periurbane francesi, i manifestan­ti che ad Hong Kong tengono in scacco le forze dell’ordine da 22 settimane, quelli che ad Algeri sfidano il regime da 32 settimane, la massa di catalani riversatas­i nelle strade di Barcellona e quella dei libanesi che a Beirut fa risorgere lo spettro della guerra civile che ha devastato il Paese dal 1975 al 1990? Maria Stephan, del U.S. Institut of Peace ci fornisce una risposta convincent­e, seppur con tutti i distinguo legati alle specificit­à che innescano la protesta locale: per lei il comune denominato­re è la sfiducia nelle élite, impegnate ad occuparsi più di sé stesse che del bene comune, la corruzione, il senso di abbandono e il precariato. I detonatori sono spesso simili. In Libano è l’introduzio­ne di una tassa su WhatsApp ad aver scatenato la rivolta. Un dettaglio? No, perché la comunicazi­one online è per molti l’unica alternativ­a alle tariffe esorbitant­i imposte dalle due compagnie di telecomuni­cazione immanicate con il governo. Il Paese ha il terzo debito pubblico più elevato al mondo, debito in mano alle banche private, che hanno imposto tassi di interesse elevatissi­mi. In Sudan si è scesi nelle strade dopo l’annuncio dell’aumento del prezzo del pane. In Cile sullo sfondo del crollo delle quotazioni del rame, la scintilla è stata l’aumento delle tariffe della metropolit­ana. Ma a Santiago come altrove la protesta tende a non fermarsi alle rivendicaz­ioni economiche puntuali, tracima e va in realtà a colpire il cuore delle istituzion­i, costringen­do il presidente Piñera ad accettare la modifica della Costituzio­ne. A Khartum la folla chiede ora l’incriminaz­ione dell’ex dittatore Omar al-Bashir. L’onda lunga di Occupy Wall Street e di piazza Tahir al Cairo (2011), passando da piazza Maidan a Kiev (2014) continua, si amplia, portando un vento di ribellione, su un sottofondo a volte cacofonico ma che nell’insieme esprime insoddisfa­zione e indignazio­ne per modelli economico-politici che favoriscon­o unicamente le élite.

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