Nessun idillio
Momenti di lettura / Marion Messina, ‘Falsa partenza’, La nave di Teseo
Un romanzo che affronta senza sconti la disillusione che impietosamente segue ogni velleità di affermazione in una società sempre più precarizzante. Peccato per la frettolosa traduzione in italiano.
Aurélie ha vent’anni. È francese, viene dalla provincia, da una famiglia operaia che ha condotto una vita di sacrifici per consentire ai figli di studiare e di risalire la scala sociale. E non dev’essere facile, per chi è nelle sue condizioni, avere vent’anni nel cuore dell’Europa unita, quella che da decenni parla di mobilità, opportunità, flessibilità del lavoro, iperconnessione; e che in realtà è liquida, spersonalizzante, marginalizzante. Marion Messina, salutata come la nuova Houellebecq (ci andrei un po’ cauto), esordisce con un romanzo che affronta, senza sconti e con gli strumenti che solo la (buona) letteratura sa dispiegare, il motivo della disillusione che impietosamente segue ogni velleità di affermazione in una società sempre più precarizzante.
Il sistema dei personaggi è costruito attorno alla giovane protagonista. Cresce a Grenoble (i cui platani, d’inverno, “adottavano l’odioso colore della morte”), in una famiglia rispetto alla quale la frattura generazionale è ormai profonda: silenziosamente e drammaticamente senza conflitti, perché dell’orizzonte culturale di quel proletariato non è rimasto più nulla (“Mia madre compra qualcosa perché è economico. Improvvisamente è felice. Ma di colpo finisce col comprare sandali di plastica a febbraio. Mio padre vota sempre, io sospetto che gli piaccia perfino compilare la dichiarazione dei redditi”).
‘Era il grado zero della sofferenza, un lato B dell’esistenza’
Subito dopo la maturità, Aurélie inizia una relazione totalizzante col coetaneo Alejandro, colombiano che credeva di trovare in Francia un grande avvenire, sedotto dall’arte e dalla letteratura di un Paese che in realtà lo tratterà sempre come un immigrato, costringendolo a dividere bilocali con altri connazionali. Quel primo amore, così viscerale, permette ad Aurélie di anestetizzare le delusioni: l’Università tanto attesa e in realtà, come per tanti giovani francesi, “una scelta di default, un universo in cui si trovavano parcheggiati per non far esplodere la percentuale della disoccupazione”; la consapevolezza che “la sua generazione non aveva nessuna guerra cui opporsi, nessuna vera difficoltà, assolutamente nessuna prospettiva. Era il grado zero della sofferenza, un lato B dell’esistenza”.
Poi Alejandro cambia città e ad Aurélie non resta più nulla, se non tentare di trasferirsi a Parigi (che, come si sa, col resto della Francia non ha nulla in comune). Parte con settecento euro in tasca. Ne spende cento da H&M per un abito in poliestere e delle scarpe in poliuretano che le permettano di non sembrare troppo povera al colloquio in qualche impersonale ufficio di collocamento. Non si ampliano le prospettive, si apre il baratro della solitudine e della marginalizzazione, tra ostelli per la gioventù e interminabili viaggi quotidiani in metropolitana per raggiungere impieghi interinali sempre più precari, perché per un lavoro come sostituto “addetto al ricevimento” c’è la fila di laureati, quindi meglio accontentarsi. Né la relazione col quarantenne Franck, scelta per opportunismo economico, né il nuovo incontro con Alejandro le aprono le porte della serenità. Nessun idillio, nessuna speranza. Quella di Aurélie è davvero una “falsa partenza”, anche se forse c’è rimedio.
Marion Messina sceglie di indagare pochissimo la psicologia dei suoi personaggi, la cui sofferenza emerge tuttavia dall’incessante descrizione della loro avvilente quotidianità, uno stallo reso attraverso una sintassi paratattica fatta di periodi giustapposti e attraverso l’uso costante di tempi verbali che esprimono durata e ripetitività, come l’imperfetto e il trapassato prossimo. Aspetti, questi, che nemmeno la (frettolosa?) traduzione in italiano è riuscita ad offuscare. È consigliata la lettura in lingua originale.