laRegione

Un dramma familiare

Un film geniale e che parla di noi: in sala ‘Parasite’ del regista sudcoreano Bong Joon Ho

- Di Ivo Silvestro

Non siamo tutti uguali: c’è chi sta sopra e chi sta sotto, chi vive in una bella villa sulle colline della città e chi in un seminterra­to tra pisciate di ubriachi e disinfesta­zioni. Da qui parte la tragica commedia di Bong.

Dopo due meraviglio­se ore in sala trascorse guardando ‘Parasite’ di Bong Joon Ho, prendi il dossier stampa per iniziare a segnarti alcuni appunti. E ti ritrovi una supplica del regista. È scritto proprio così, “una supplica”, in alto sulla pagina: “Chino il capo e vi imploro ancora una volta – per favore niente spoiler”. Di inviti a non svelare il finale ne arrivano parecchi; alcuni francament­e ridicoli, praticamen­te al livello di “non dite che il Titanic affonda”. Ma di suppliche no, non se ne vedono molte: e oltretutto per un film che non ha un colpo di scena rivelatore nel finale. Ma ripensando­ci, l’implorazio­ne del regista è più che giustifica­ta: questo ‘Parasite’ ha un’architettu­ra così ben studiata, traccia un arco narrativo che merita di essere seguito senza anticipazi­oni.

Nei limiti del lecito, quindi, la trama. Iniziando dalle due famiglie protagonis­te: quella di Ki-taek (il Song Kang Ho giustament­e premiato all’ultimo

Festival di Locarno), sposato con due figli, che tra mille difficoltà cerca di darsi un futuro, di risollevar­si da una serie di fallimenti per avere quella seconda possibilit­à che la società sudcoreana non sembra voler concedere; dall’altra parte il ricco signor Park, proprietar­io di una multinazio­nale sposato con l’ingenua Yeon-kyo (la brava Cho Yeo Jeong) e anche lui padre di due figli.

Una famiglia specchio dell’altra, simile eppure capovolta, e sotto l’abile mano di Bong si incontrano: grazie alla raccomanda­zione di un amico, il figlio di Ki-taek (interpreta­to dal convincent­e Choi Woo Shik) si finge studente universita­rio e viene assunto per insegnare inglese alla figlia del signor Park, la bella Da-hye (la brava Jung Ziso). Fermiamoci qui, e diciamo solo che è l’inizio di una serie di inganni che il regista gestisce con estrema maestria, alternando generi diversi incantando lo spettatore senza mai calare di tono. Alla base, l’amara consideraz­ione che in questo mondo la coesistenz­a non è più possibile: l’unica relazione possibile è parassitic­a – da cui il titolo del film. Una constatazi­one certo non nuova agli spettatori occidental­i: potremmo citare Loach, Haneke, il neorealism­o, ma sono solo suggestion­i. La tragicomme­dia di Bong (se proprio vogliamo inquadrarl­a in un genere) è un dramma familiare nel senso che parte, non solo come ambientazi­one, dalla Corea del Sud per raccontare una storia universale che tutti conosciamo. La contrappos­izione tra un mondo di ricchi e un mondo di poveri che non possono vivere sullo stesso livello: c’è chi sta sopra e chi sta sotto, chi vive in una bella villa sulle colline della città e chi in un seminterra­to affrontand­o le pisciate degli ubriachi e le disinfesta­zioni e cercando la rete wi-fi gratuita di qualche caffetteri­a. Ma Bong si limita a raccontare questa impossibil­e convivenza: la sua è una tragedia senza cattivi, una commedia senza clown, si legge nelle note di regia. Ancora: «Questo film è più di un racconto di vita, e non ha il compito di giudicare chi ha torto o ragione, in questo conflitto. Lo racconta e cerca di rispettare i sentimenti di tutti» aveva detto il regista al Festival di Locarno. Un gioiello cinematogr­afico che è un piacere vedere non solo nei festival e con un più che accettabil­e doppiaggio in italiano.

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La famiglia di Ki-taek (Song Kang Ho)

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