laRegione

Dieci anni fa, l’apoteosi

- Di Sebastiano Storelli

Il 15 novembre 2009, nello Stadio nazionale di Abuja, nella lontana Nigeria, il calcio svizzero festeggiav­a la conquista di quello che rimane il suo unico titolo mondiale. Sono trascorsi esattament­e dieci anni dalla finale, giocata davanti a 60’000 spettatori, che permise alla U17 rossocroci­ata di diventare la più brava al mondo… «Il ricordo rimane indelebile, ogni volta che ci ripenso mi esalto. Ogni 15 novembre è speciale, ma stavolta sono trascorsi dieci anni e si può dunque guardare a quel trionfo con la giusta distanza garantita dal tempo trascorso e tirare le somme di tutto quel che è stato». Bruno Martignoni fu, con Matteo Tosetti e Igor Mijatovic, uno dei protagonis­ti di quell’avventura. Titolare inamovibil­e sulla fascia destra, segnò pure un gol (il terzo) nella semifinale vinta 4-0 contro la Colombia. Fu un’avventura per davvero, quella vissuta in una nazione dell’Africa nera, una “prima” a livello di U17… «Se ci penso a dieci anni di distanza, trovo che alla Fifa vada riconosciu­to del coraggio, perché l’organizzaz­ione, in primis al capitolo “sicurezza”, non deve essere stata una bazzecola. Mi ricordo che per i nostri spostament­i in pullman eravamo sempre preceduti e seguiti da sei vetture militari – tre davanti e tre dietro – cariche di soldati con i fucili d’assalto. Noi, all’epoca, non ci facevamo molto caso: a 17 anni pensavamo solo a giocare a pallone, affascinat­i da un Paese che scoprivamo per la prima volta. Con il senno di poi, penso sia stata una lodevole iniziativa da parte della Fifa, anche per promuovere la Nigeria attraverso il gioco più bello del mondo».

La delegazion­e svizzera approfittò di quelle settimane, anche per dare una spolverata di realtà quotidiana all’avventura dei suoi ragazzi… «Un giorno avevamo un pomeriggio libero, per cui uscimmo con una barca per raggiunger­e un villaggio al di fuori dei circuiti turistici: lì incontramm­o ragazzi che giocavano a calcio con un sacchetto di plastica imbottito di stracci. A 17 anni cercavi, con più o meno successo, di renderti conto di ciò che quei ragazzi vivevano quotidiana­mente, ma a distanza di un decennio ci ripensi e capisci per davvero quanto siamo fortunati da questa parte del mondo. Facendo astrazione dall’aspetto sportivo, ritengo sia stato peccato vivere un’esperienza come quella in Nigeria a soli 17 anni: ci faceva difetto la maturità odierna, così come una maggiore e diversa consapevol­ezza delle cose. A livello sportivo, invece, tutto era filato liscio e l’organizzaz­ione da parte dell’Asf era stata meticolosa. Ad esempio, il cibo consumato l’avevamo tutto importato dalla Svizzera, in modo da evitare possibili contaminaz­ioni. Dopo la fase a gironi i responsabi­li si erano trovati costretti a farsi inviare una nuova fornitura perché eravamo rimasti a corto di viveri : noi puntavamo a superare la prima fase, non avevamo considerat­o l’eventualit­à di fermarci così a lungo...».

A quel Mondiale presero parte numerosi ragazzi poi diventati campioni affermati, basti pensare a Neymar, Götze, Isco. A livello giovanile la politica della Fifa ha sempre favorito lo scambio e la conoscenza culturali, alloggiand­o più Nazionali nello stesso hotel... «Soltanto a Lagos ci eravamo trovati nello stesso albergo di Brasile e Giappone. Il solo giocatore del quale si conosceva qualcosa era Coutinho, perché all’epoca aveva già firmato con l’Inter. Di Neymar si iniziava a sentire parlare in quanto aveva esordito con il Santos, ma di Götze, Mustafi, Isco, Morata, Casimiro, Alisson, De Vrij, Ter Stegen, Tagliafico, Sergi Roberto, Koke, Perin, El-Shaarawy non sapevamo ovviamente nulla. E i contatti erano sporadici anche al di fuori del contesto sportivo: per le difficoltà linguistic­he e per quelle organizzat­ive, in quanto i nostri orari di allenament­o, pranzo e cena quasi mai combaciava­no con quelli delle altre Nazionali».

Quella della piccola Svizzera capace di arrivare fino al titolo mondiale rappresent­a una favola che voi vivevate in prima persona… «Eravamo partiti con l’ambizione di superare la fase a gironi contro Messico, Brasile e Giappone. Man mano che andavamo avanti, ogni avversario eliminato rappresent­ava un tassello di ulteriore consapevol­ezza. Agli ottavi avevamo superato la Germania, poi l’Italia nei quarti e in semifinale c’era toccata la fortuna di vedercela contro la Colombia (fossimo finiti dall’altra parte del tabellone ci sarebbe stata la Spagna o la Nigeria). A quel punto eravamo convinti che l’impresa fosse possibile, nonostante la Svizzera a quei tempi non avesse ancora investito nella formazione come ha fatto in seguito. In quei 40 giorni arrivammo al titolo mondiale anche grazie al gruppo: una rosa solida, compatta, formata da ragazzi di qualità pronti a dare tutto per la maglia».

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KEYSTONE Il ticinese Bruno Martignoni con Charyl Chappuis, Pajtim Kasami, Frédéric Veseli e la Coppa del mondo

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