L’apartheid nel futuro di Israele
C’è una cosa condivisa da Benjamin Netanyahu e dai più accesi nemici di Israele: (...)
(...) il sogno di una sola entità statale tra Giordano e Mediterraneo. La cartina che vidi appesa nell’ufficio del sindaco di un villaggio palestinese nei Territori, e quella, speculare, dei fautori di Eretz Israel. Svuotata di palestinesi, per gli uni; di israeliani per gli altri. Un sogno tragico e accecato dal fanatismo. Con un di più paradossale: che l’esistenza di Israele è sempre più data per assodata, seppur mal digerita, nel mondo arabo – o forse nelle sue dirigenze statali, interessate più agli affari che agli umori di popolazioni da sempre assoggettate –, mentre in Israele cresce la parte di opinione pubblica che esclude la prospettiva di costituire due stati, nei confini precedenti la guerra del 1967. Apparentemente, la storia si sta muovendo verso la concretizzazione del sogno, a vantaggio di Israele, come conferma la nuova, iniqua decisione dell’amministrazione Trump di dichiarare superiore al diritto internazionale la politica di colonizzazione israeliana della Cisgiordania (diritto internazionale al quale, peraltro, Israele deve il proprio riconoscimento quale Stato). La presa d’atto della realtà sul terreno, invocata dalla Casa Bianca per riconoscere la sovranità israeliana su terra altrui, potrebbe pur essere una “resa” all’ineluttabile, lo smascheramento dell’ipocrisia diplomatica internazionale, se non fosse l’espressione di un cinismo disgustoso: il riconoscimento, anzi l’appoggio incondizionato alle ragioni del più forte. Che oltretutto tradisce i pur controversi motivi con i quali Israele motivò il mantenimento dell’occupazione dei territori conquistati nella ‘Guerra dei sei giorni’, vale a dire la loro restituzione in ritorno del proprio riconoscimento da parte degli stati arabi. Da allora, l’euforia di una vittoria schiacciante ottenuta su un nemico che ne voleva l’annientamento (la stessa che più tardi impedì di vedere in tempo l’aggressione dello Yom Kippur…), spinse Israele in tutt’altra direzione. Che neppure gli accordi di Oslo (pur costati la vita a Yitzhak Rabin, dipinto da Netanyahu come un traditore) corressero, anzi incoraggiarono. La colonizzazione non ha fatto che intensificarsi, nel solco di un messianesimo portato anche da una immigrazione dall’America, e di un pragmatismo amorale giuntovi nelle valigie degli immigrati dall’ex Urss. Israele era un sogno e tale doveva restare, disse un vecchio sionista amareggiato. No, Israele merita d’esserci, ma quel sogno è a un passo dal tradursi in incubo, non solo per le sue vittime, ma anche per i suoi esaltati cantori. Una volta occupata tutta la landa tra Giordano e Mediterraneo, ed escludendo, si spera, un trasferimento forzato della popolazione palestinese, l’equilibrio demografico volgerebbe in breve a favore di quest’ultima. Mantenerla assoggettata, come nelle intenzioni della destra, darebbe forma a un regime di apartheid, non c’è altra definizione adeguata. Pensarlo esercitato dagli eredi di chi lo subì per secoli, più che rabbia genera sgomento. Con tutto che anche l’apartheid – il Sudafrica insegna – non è eterno.