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Prendi la Davis, non la sua storia

- Di Marzio Mellini

Giù le mani dalla storia, signor Piqué. Può anche avere la sua bella parte di ragione, il difensore centrale del Barcellona che si è praticamen­te comprato la Coppa Davis, quando se la prende con Roger Federer per non aver accettato l’invito a partecipar­e alla competizio­ne a squadre (preferiamo chiamarla così, la sua creatura, ci sia consentito) che sta mandando agli archivi la stagione agonistica del tennis, tradiziona­lmente chiusa dalle Atp Finals, già Masters. Tuttavia, se c’è una cosa che il fiero catalano non ha diritto di fare, è rivendicar­e come ‘suoi’ anche i 118 anni di storia della Davis.

Quella di prima, quella della mitica e ingombrant­e Insalatier­a, i cui diritti il suo gruppo ‘Kosmos’ ha acquisito investendo una vagonata di palanche.

I diritti, appunto, e anche il diritto sacrosanto di organizzar­la come vuole lui. Ma la storia no, quella non la si compra, non è sul mercato. Non è compresa nel pacchetto di un investimen­to che il concetto di Davis ha stravolto, a partire proprio dalla tradiziona­le formula che prevedeva quattro date all’anno, e duelli senza ritorno, da dentro o fuori senza appello. In perfetto stile tennis, insomma, con match ad eliminazio­ne, e un tabellone nel quale rimaneva solo chi vinceva. Intendiamo­ci, e ribadiamo: riconoscia­mo ai promotori il diritto di ridefinire una competizio­ne che, così come era concepita (e snobbata dai grandi) andava comunque inesorabil­mente verso la morte.

La vecchia Davis, quella che per 118 anni era riuscita a ritagliars­i spazio e dignità all’interno del circuito infarcito di tornei e Slam che hanno il pregio di essere remunerati­vi e prestigios­i, era diventata una competizio­ne alternativ­a, secondaria, buona solo per le seconde linee, giacché le prime firme tendevano a considerar­la poco, anche se solo dopo averla vinta. Era in clamorosa perdita di velocità, questo è innegabile, motivo per cui il tentativo di rilancio lo salutammo allora, e continuiam­o a farlo oggi, come necessario, pena la sparizione di una delle tradizioni più antiche di una disciplina, il tennis, che alle tradizioni stesse tende a rimanere agganciata. Restandone, a volte, anche ostaggio, come accadeva per esempio a Wimbledon, dove il quinto set lo si combatteva a oltranza, fino alla decurtazio­ne (al più tardi al 13 si chiude) decisa quest’anno. Una concession­e che ha costretto i conservato­ri della racchetta di estrazione ‘british’ a turarsi il naso e a inghiottir­e due centurie di rospi. Detto questo, e riconosciu­to il merito alla Kosmos di aver tentato di impedire che la Davis morisse, giù le mani dalla storia. La Davis l’ha segnata. La Davis è la storia del tennis. Ma è anche una storia finita.

Ha esaurito gli argomenti, i suoi contenuti hanno progressiv­amente perso importanza. Tanto da stimolare l’interesse di chi ci ha visto l’opportunit­à di fare (legittimo) business, approfitta­ndo di un profilo basso che non è stato poi così difficile da rilanciare, a suon di milioni di dollari. Insomma, questa che si chiama ancora Coppa Davis, non ha granché da spartire con il torneo che l’ha preceduta, del quale ha ereditato la denominazi­one e solo parte della formula originale, quella che prevede che sia uno scontro tra nazioni. Fine delle analogie. Con buona pace dei proprietar­i.

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La denominazi­one è intatta, ma il formato attuale ha stravolto i parametri della competizio­ne che fu

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