Prendi la Davis, non la sua storia
Giù le mani dalla storia, signor Piqué. Può anche avere la sua bella parte di ragione, il difensore centrale del Barcellona che si è praticamente comprato la Coppa Davis, quando se la prende con Roger Federer per non aver accettato l’invito a partecipare alla competizione a squadre (preferiamo chiamarla così, la sua creatura, ci sia consentito) che sta mandando agli archivi la stagione agonistica del tennis, tradizionalmente chiusa dalle Atp Finals, già Masters. Tuttavia, se c’è una cosa che il fiero catalano non ha diritto di fare, è rivendicare come ‘suoi’ anche i 118 anni di storia della Davis.
Quella di prima, quella della mitica e ingombrante Insalatiera, i cui diritti il suo gruppo ‘Kosmos’ ha acquisito investendo una vagonata di palanche.
I diritti, appunto, e anche il diritto sacrosanto di organizzarla come vuole lui. Ma la storia no, quella non la si compra, non è sul mercato. Non è compresa nel pacchetto di un investimento che il concetto di Davis ha stravolto, a partire proprio dalla tradizionale formula che prevedeva quattro date all’anno, e duelli senza ritorno, da dentro o fuori senza appello. In perfetto stile tennis, insomma, con match ad eliminazione, e un tabellone nel quale rimaneva solo chi vinceva. Intendiamoci, e ribadiamo: riconosciamo ai promotori il diritto di ridefinire una competizione che, così come era concepita (e snobbata dai grandi) andava comunque inesorabilmente verso la morte.
La vecchia Davis, quella che per 118 anni era riuscita a ritagliarsi spazio e dignità all’interno del circuito infarcito di tornei e Slam che hanno il pregio di essere remunerativi e prestigiosi, era diventata una competizione alternativa, secondaria, buona solo per le seconde linee, giacché le prime firme tendevano a considerarla poco, anche se solo dopo averla vinta. Era in clamorosa perdita di velocità, questo è innegabile, motivo per cui il tentativo di rilancio lo salutammo allora, e continuiamo a farlo oggi, come necessario, pena la sparizione di una delle tradizioni più antiche di una disciplina, il tennis, che alle tradizioni stesse tende a rimanere agganciata. Restandone, a volte, anche ostaggio, come accadeva per esempio a Wimbledon, dove il quinto set lo si combatteva a oltranza, fino alla decurtazione (al più tardi al 13 si chiude) decisa quest’anno. Una concessione che ha costretto i conservatori della racchetta di estrazione ‘british’ a turarsi il naso e a inghiottire due centurie di rospi. Detto questo, e riconosciuto il merito alla Kosmos di aver tentato di impedire che la Davis morisse, giù le mani dalla storia. La Davis l’ha segnata. La Davis è la storia del tennis. Ma è anche una storia finita.
Ha esaurito gli argomenti, i suoi contenuti hanno progressivamente perso importanza. Tanto da stimolare l’interesse di chi ci ha visto l’opportunità di fare (legittimo) business, approfittando di un profilo basso che non è stato poi così difficile da rilanciare, a suon di milioni di dollari. Insomma, questa che si chiama ancora Coppa Davis, non ha granché da spartire con il torneo che l’ha preceduta, del quale ha ereditato la denominazione e solo parte della formula originale, quella che prevede che sia uno scontro tra nazioni. Fine delle analogie. Con buona pace dei proprietari.