Lo ‘scandalo’ Rom
Conversazione con Nadia Bizzini, antropologa e mediatrice culturale
Temuti da molti, amati da quasi nessuno, la distanza che ci separa da loro alimenta numerosi stereotipi. Ma ci sono anche i problemi oggettivi di una relazione conflittuale, che non sarebbe onesto ignorare. Prima, però, dobbiamo capire meglio di chi stiamo parlando: ci aiuta l’autrice de ‘Gli altri noi’, che con i nomadi in Ticino lavora da 13 anni.
«Non sono razzista, ma i Rom mi fanno paura». Chissà quanti di noi – mi ci metto per primo – hanno sentito o perfino pensato una cosa del genere. Per questo è importante la lettura de ‘Gli altri noi’ dell’antropologa e mediatrice culturale Nadia Bizzini: perché ci aiuta a rispecchiarci nella realtà il cui ovale viene descritto fin dal sottotitolo, ‘Rom e residenti nella Svizzera italiana: etnografia e mediazione’ (Armando Dadò editore, 2019). È dal 2006 che Bizzini lavora per il Dipartimento istituzioni (Di) del Cantone, col compito di gestire le relazioni fra ‘noi’ e ‘loro’: i Rom, appunto. L’esperienza sul campo si unisce al rigore della ricerca antropologica e il testo, pur essendo di fatto una tesi di dottorato, si lascia leggere anche come un racconto di vita. Quella che ne viene fuori è un’immagine lontana da tutti gli stereotipi dettati dall’ignoranza: quelli razzisti, ma anche quelli di un buonismo altrettanto superficiale.
Dottoressa Bizzini, cominciamo con qualche chiarimento: chi sono e quanti sono i Rom che transitano sul territorio svizzero?
I Rom in transito in Svizzera sono circa cinquemila, contando i bambini, e anzitutto non vanno confusi con quelli che si trovano nei cosiddetti campi nomadi italiani. Se a sud assistiamo alla presenza di persone rese già stanziali dalle politiche socialiste della ex Jugoslavia – per cui la stessa etichetta di ‘campo nomadi’ rischia di essere fuorviante –, i Rom che vediamo passare in Svizzera continuano i loro spostamenti e appartengono a una migrazione precedente, del primo Novecento. Si tratta di famiglie che hanno abitazioni fisse in Italia o in Francia, Spagna e Germania, dove hanno la cittadinanza. Mantengono orgogliosamente una loro lingua orale, e normalmente frequentano la Svizzera fra marzo e ottobre in roulotte.
A loro volta non sono da confondere con gli Jenisch (peraltro vittime di assimilazione, sterilizzazioni e affidi forzati).
Certo. Gli Jenisch sono presenti in Svizzera da prima ancora che questa esistesse come Stato, parlano una lingua completamente diversa da quella dei Rom e i loro spostamenti sul territorio non hanno mai creato problemi di igiene e ordine pubblico.
Prima della chiusura dell’area di Galbisio nel Bellinzonese, insieme anche alla Polizia cantonale eravate riusciti a risolvere il problema delle pessime condizioni igieniche nelle quali i Rom lasciavano la struttura: è stata anche questa emergenza che ha dato origine al suo mandato.
Ma perché si comportavano così?
Quello dell’igiene è un problema complesso. Ho potuto appurare che ‘a casa loro’ i Rom rispettano ordine e pulizia. Il loro atteggiamento nelle aree di sosta deriva dall’esacerbarsi di una contrapposizione fra ‘noi’ e ‘loro’. Si tratta di individui storicamente confrontati con un atteggiamento di rifiuto e persecuzione; penso anche ai vari episodi di spari e sassate contro gli accampamenti visti in passato perfino in Ticino: una volta un proiettile si conficcò nel materasso di un bambino. In un contesto di distanza così profonda, i Rom sporcano quello che in realtà vedono come già sporco prima del loro arrivo, un terreno sul quale rivendicare la propria diversità rispetto ai ‘gazé’, i non-Rom.
Non vogliono integrarsi, insomma. Piuttosto temono di essere assimilati a forza a una cultura non loro. In questo modo utilizzano anche comportamenti conflittuali per ‘serrare i ranghi’ e mantenere la loro unicità.
È la stessa posizione che li spinge a non mandare i loro figli a scuola, a differenza degli Jenisch.
Resta il fatto che una pacifica convivenza passa anche dalla creazione di un terreno comune, ad esempio proprio nell’igiene e nell’istruzione. Come vi siete mossi?
Per garantire che le aree di sosta fossero lasciate pulite, abbiamo introdotto un sistema di ricompensa. Veniva loro chiesto di depositare una caparra di cento franchi per ogni roulotte, restituiti solo se alla fine del soggiorno tutto era in ordine. Ha funzionato. Come l’esperienza delle ‘camionette’ per portare insegnanti all’interno delle aree, in modo che potessero ricevere un’alfabetizzazione senza mandare i figli a scuola, un’istituzione nella quale temono di ‘perdersi’.
Fra gli stereotipi relativi ai Rom, c’è quello che li vuole tutti ladri e accattoni.
In realtà, questi fenomeni si sviluppano a partire da realtà ghettizzanti come i campi nomadi italiani. I Rom che passano in Svizzera in roulotte non rubano e non chiedono l’elemosina, ma vivono facendo vari lavori per i quali dispongono di un permesso: ramai, arrotini, venditori di tappeti, restauratori di facciate e immobili.
Il loro comportamento nei luoghi pubblici, però, è sempre visto come insistente e sopra le righe. Al punto di temere furti e violenze.
Anche questo fa parte di un conflitto reciproco, all’interno del quale i Rom quasi si divertono a ‘dare scandalo’ per ottenere quello che vogliono. Ricordo la scena di una donna che accompagnavo, che si è messa a provocare un’altra signora commentando la bellezza dei suoi orecchini. O un’altra che per essere servita prima in un negozio di telefonia ha mandato il figlio ad armeggiare con tutti i telefonini. Il tutto senza nessuna intenzione di rubare: furti e violenze, anche all’interno delle comunità, sono rari. Una volta mi cadde inavvertitamente dalle tasche un pacchetto di sigarette con dentro dieci franchi: subito un bambino, su indicazione della madre, me li restituì.
Di fronte a problemi così complessi, a cosa serve un libro?
Il mio lavoro cerca di riflettere sull’ambivalenza delle nostre relazioni, di dare indicazioni per gestire una dinamica ineliminabile, fatta di opposizioni reciproche.
Per questo sono grata a tutti quelli che mi hanno sostenuta: il Dipartimento delle istituzioni, i miei colleghi e direttori di ieri e di oggi; i miei due direttori di ricerca, i prof. André Petitat e prof. Leonardo Piasere; l’editore Dadò, che ha permesso di diffondere un lavoro decennale; il Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e il Cantone, che hanno supportato finanziariamente il lavoro; e la Commissione federale contro il razzismo, che oltre al sostegno economico ha aggiunto il privilegio di adottare il libro come manuale di mediazione.