Non va mica così bene
Il risultato alle Federali rivela anche il disagio per la situazione economica. Pil e lavoro crescono, eppure il numero degli esclusi resta costante. È un problema.
a cura di Lorenzo Erroi
Come sta il lavoro in Ticino? C’è chi dice che tutto-va-bene-madama-la-marchesa, e chi invece dipinge scenari apocalittici. La realtà è fatta di dati complessi, difficili da leggere. Per capirla un po’ meglio abbiamo chiesto aiuto a Fabio Losa, economista della Supsi e coordinatore del gruppo di lavoro voluto dal Dipartimento delle finanze e dell’economia per riflettere sul mercato del lavoro ticinese. Spoiler: non va mica tutto bene.
Losa, cosa ci dicono i dati?
Se guardiamo l’andamento economico dal 2010, vediamo un Ticino che cresce più degli altri cantoni per numero di aziende, Pil e persone occupate. Questa ‘Jobwunder’, però, nasconde una serie di punti deboli che relativizzano i benefici per i residenti e spiegano effettivi di disoccupati che restano più numerosi che nel resto della Svizzera.
Come è possibile?
Dal 2010 ad oggi, tre quarti dei nuovi impieghi creati sono andati a frontalieri o nuovi permessi B. Quindi l’occupazione è sì aumentata, ma solo in minima parte per i già residenti, determinando di fatto un numero di disoccupati che non si è ridotto – malgrado appunto la forte crescita – ed è rimasto nella fascia fra 10 e 14mila. Queste persone restano ai margini e i tempi di reinserimento si allungano: siamo la regione della Svizzera che ha la quota parte di disoccupati di lunga durata più elevata a livello nazionale, oltre a essere quella con più disoccupati giovani, insieme alla regione lemanica. Inoltre la crescita è stata per grandissima parte in occupazione a tempo parziale, alimentando il fenomeno della sottoccupazione.
Eppure il dato Seco dice che in 10 anni i disoccupati si sono dimezzati.
Per un’analisi oggettiva della disoccupazione, chi sbandiera il dato Seco non fa un lavoro scientificamente corretto. Quel dato conta solo i disoccupati iscritti agli Uffici regionali di collocamento, un numero in forte decrescita per due motivi che non sono direttamente collegati a una buona salute del mercato del lavoro. Anzitutto, gli iscritti calano perché sono aumentate le restrizioni all’accesso alle indennità di disoccupazione soprattutto per i giovani. Poi ci sono coloro che si disiscrivono, fenomeno molto frequente per i disoccupati di lunga durata che esauriscono il diritto alle indennità. Questo significa che il dato Seco non basta per comprendere l’entità del fenomeno disoccupazionale, né per analizzarne l’evoluzione e neppure la struttura in termini di minore o maggiore incidenza su questo o su quell’altro gruppo sociale o professionale.
Quindi ora il dato da guardare è l’attuale 8,1% di Ilo, o almeno la media annuale: 7,1% circa contro il 4,6% nazionale. Ma chi sono?
La disoccupazione tocca più i giovani – ma quando colpisce le persone mature, per queste diventa molto più difficile ritrovare un impiego –, gli stranieri, le donne, le persone meno qualificate. Infine alcune professioni più vulnerabili, come le impiegate di commercio.
E i salari?
Crescono in Ticino, ma meno che nelle regioni lontane dalla frontiera. Mentre le differenze fra salari più elevati e più bassi – ma anche fra uomini e donne, fra svizzeri e stranieri – restano importanti.
Colpa della libera circolazione?
A livello complessivo nazionale, quello sulla libera circolazione è un buon accordo. Però, per realtà esposte alla frontiera il bilancio è più in chiaroscuro: ci sono vincenti e perdenti. La libera circolazione favorisce ad esempio le aziende che cercano nuova forza lavoro – perché si trovano davanti a un bacino di reclutamento più ampio –, e quelle posizioni o professioni complementari alla manodopera frontaliera.
Quando residenti e frontalieri ambiscono allo stesso posto di lavoro, invece, le probabilità per i primi di essere assunti si assottigliano. Ciò determina la minor capacità del nostro mercato di lavoro di riassorbire disoccupati.
I frontalieri sostituiscono i lavoratori residenti?
Non è tanto questione di ‘tolgo uno, metto l’altro’. Piuttosto, come si diceva, in un momento di ripresa economica quando le aziende ricominciano ad assumere, in una zona di frontiera per lo stesso posto si presenta un numero maggiore di pretendenti, residenti e non. In certi casi, un datore di lavoro privilegia ad esempio un frontaliere formato ed esperto disposto a competere per posizioni che da noi, per salario e inquadramento, attraggono solo profili più giovani e quindi inevitabilmente più ‘acerbi’.
È anche questione di dumping salariale?
I risultati dell’attività della Commissione Tripartita dimostrano in certi casi di sì. Tanto che il Ticino è il cantone che ha dovuto introdurre più contratti normali di lavoro o cercare la via dell’obbligatorietà generale per i contratti collettivi. Quello che alcuni chiamano ‘imbarbarimento del mercato del lavoro’ ticinese si riscontra solo in alcune frange: però in quelle frange – difficili da quantificare – fa male.
Quindi bisogna chiudere le frontiere? No, ma bisogna ritenere invalicabile la linea rossa delle misure di accompagnamento. Ricordiamoci che il nostro cantone non è esposto al Baden-Württemberg, ma alla Lombardia e al Piemonte, regioni altamente dinamiche, ma pure con oltre 400mila disoccupati e con livelli salariali ben al di sotto di quelli ticinesi. Quindi da noi sono fondamentali i controlli sul mercato del lavoro e le attività delle commissioni tripartite (che riuniscono Cantone, sindacati e rappresentanti degli imprenditori, ndr).
La documentazione di abusi fa temere la presenza di ‘mele marce’ nell’imprenditoria che opera in Ticino. Ci aiuti a definire l’estensione e la gravità del problema.
Non abbiamo dati quantitativi attendibili. Il tessuto dell’economia ticinese è solido, responsabile e da sempre attento ad agire secondo le regole e il buon senso comune.
A livello di certi comparti e frange però questo non accade, come dimostrano i dati sugli abusi. E la mela marcia rischia di rovinare tutto il cesto.
In conclusione: come siamo messi? C’è un mercato del lavoro che cresce, ma non migliora in termini di inclusività. A breve termine questo può non essere un grosso problema, ma a lungo termine mette a rischio la sostenibilità dell’intero sistema.