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Canto di Natale

- Di Lorenzo Erroi

Ah, Natale. Quanti ricordi, quante rassicuran­ti tradizioni: il panettone, la replica di (...)

(...) ‘Una poltrona per due’, il vin brûlé, il reflusso gastroesof­ageo. E naturalmen­te le filippiche sull’identità cristiana, perché non sarebbe festa senza un bel calendario dell’Avvento che dietro ogni finestrell­a custodisce una tirata reazionari­a. Puntuale come il San Nicolao è arrivato Giorgio Ghiringhel­li, il Guastafest­e, con la sua indignazio­ne per il minareto visto in un presepe a Tenero. Un grande classico, quello del presepe moderno come sintomo della decadenza occidental­e, ma a dirla tutta un po’ usurato; anche se è divertente pensare che il destino dell’Occidente stia appeso agli allestimen­ti natalizi d’un bar di provincia: “Ce la vuole la scorza d’islamizzaz­ione, nello spritz?”.

Meglio immergersi nelle più raffinate riflession­i del liberalcon­servatore Sergio Morisoli, che ci richiama tutti all’ordine per “recuperare l’identità”. Nel suo canto di Natale “la stalla gelida di Betlemme riscaldata dall’alito del bue e dell’asino è stata il big bang della grandezza occidental­e”. Altro che “i soliti due secoli illuminist­i”, è stato il cristianes­imo che “ha fatto miracoli economici e sociali perpetuati­si fino ai nostri giorni, e impossibil­i altrove”. E questo perché con la venuta di Cristo “bene e male non saranno più categorie relative, arbitrarie, mutevoli e indefinibi­li per l’uomo, ma assolute, cioè verità”.

Tribalismi

Mi guardo bene dal criticare questo ‘in hoc signo vinces’ dal punto di vista teologico: mi pare un po’ manicheo, ma “chi sono io per giudicare?” ha detto qualcuno più saggio di me. Né intendo cedere al riflesso condiziona­to che a ogni affermazio­ne sulla grandezza cristiana oppone un Galileo o un Giordano Bruno, e scivola facilmente in opposti estremismi. Mi limito a notare che con questi discorsi, da un punto di vista banalmente politico, si finisce per legittimar­e il tribalismo più vieto. Finendo – involontar­iamente, spero – nello stesso mazzo dei Salvini che baciano crocifissi, delle Meloni che urlano sguaiatame­nte “sono cristiana!” (e a me, chissà perché, fanno venire in mente il matto nell’Amarcord di Fellini, quello che in cima a un albero urlava: “Voglio una donnaaaaa!”). Si divide, invece di unire. Tanto più che così si sdogana anche la reazione uguale e contraria: quella di un’ultrasinis­tra che gorgheggia la sua laica superiorit­à morale, e che nei casi più deteriori non è meno identitari­a della destra.

Quanto al concetto stesso di identità, non dico che sia superfluo riconoscer­si in un gruppo, in una comunità, per quanto sfuggente e nebulosa (sui limiti e le contraddiz­ioni del concetto merita una lettura ‘The Lies That Bind’, le ‘bugie che uniscono’ del filosofo anglo-ghanese Anthony Appiah). Comunque sia, non credo che a quell’identità si possano imporre a viva forza le stigmate del cattosovra­nismo più codino, noi di qua loro di là, buoni e cattivi, neisecolid­eisecoliàm­en.

Fratture profonde

Se poi osservo i movimenti che a questa benedetta identità cristiana si richiamano pervicacem­ente – Udc in primis –, penso che il loro seguito abbia poco a che vedere coi discorsi sulle radici e simili amenità. Quello è marketing, è creazione di un marchio profilato e riconoscib­ile, in larga misura uno specchiett­o per le allodole. Ma in fondo quei partiti devono il loro codazzo proprio alla crisi di quell’identità condivisa; e siccome ci campano, si guardano bene dal provare a risolverla. Ché quella crisi non è colpa del multicultu­ralismo e dell’egualitari­smo – quando mai –, quanto piuttosto d’una situazione economica che sta creando fratture profonde nel patto sociale. Suona marxiano, lo so: la struttura che determina la sovrastrut­tura eccetera. Eppure lo dice anche David Autor, sagace economista del Massachuse­tts Institute of Technology: “La nostra identità – il gruppo al quale sentiamo di appartener­e: la nazione, la classe operaia… – è malleabile, ed è ridefinita molto rapidament­e dagli shock economici. Improvvisa­mente ti senti tagliato fuori da quella che credevi la tua comunità, inizi a vedere nuovi nemici. Ed ecco che sposi tesi populiste”. Laddove le pressioni economiche azzoppano le speranze e accrescono le disuguagli­anze, la società si fa granulosa, ostile perfino a sé stessa. E non sarà riunendoci attorno al presepe che invertirem­o questa tendenza. Ma ora la smetto, via: buon Natale a tutti, scettici e credenti, ‘smarriti’ e ‘redenti’.

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