Mario del Pero: ‘Due narrazioni opposte per rinserrare le fila’
Mario del Pero è professore di Storia internazionale e Storia degli Stati Uniti a SciencesPo, a Parigi.
Introducendo il dibattito sul voto di impeachment, la speaker democratica della Camera Nancy Pelosi ha detto: ‘Trump non ci ha lasciato scelta.’ Curiosa excusatio dell’accusa…
Va detto che l’impeachment è l’arma nucleare, vi si ricorre solo in situazioni estreme. Ed è chiaro che nel momento in cui si mette in stato d’accusa il presidente, per reati come alto tradimento o abuso di potere, va spiegato che non c’erano alternative a un provvedimento tanto grave. Dunque la dichiarazione di Pelosi rispondeva a una funzione retorica comprensibile, che lo è ancora di più quando si considera che l’impeachment è un processo essenzialmente politico. La costituzione statunitense è antica, scarna, riserva una riga all’impeachment e non si dilunga sulla definizione dei crimini che lo prevedono.
È un processo politico, dunque, e nella fattispecie ciò viene confermato dal fatto che Pelosi a lungo ha resistito alle pressioni della base del partito perché aprisse la procedura. Se infine ha deciso di agire è stato da un lato a causa della gravità delle accuse mosse al presidente; dall’altro perché il partito democratico, già diviso al proprio interno, pativa un ulteriore motivo di tensione tra chi spingeva per l’impeachment e chi, come lei, propendeva per temporeggiare. Ancora un paio di mesi fa, i membri democratici del congresso costretti a fronteggiare le primarie per vedere confermata la candidatura erano cento, un numero mai così elevato. In questo quadro, l’impeachment è stato un elemento unificante formidabile.
L’esito dell’impeachment è scontato: al Senato non vi sono i voti necessari alla dichiarazione di colpevolezza del presidente. Pelosi ha comunque detto che non invierà i due articoli d’accusa prima che sia fatta chiarezza sul procedimento. È il tentativo di ostacolare un finale già noto?
L’assoluzione del presidente, stante i numeri, pare inevitabile. Solo la defezione di venti senatori repubblicani potrebbe rovesciare l’esito, ma è impensabile: il partito “trumpizzato” ha fatto quadrato e non si lascerà dividere.
Le questioni sono dunque due. Intanto, come ho detto, non vi sono regole chiare sulla procedura di impeachment al Senato, che diventa una sorta di aula di giustizia presieduta dal capo della Corte Suprema, ma dove i passi procedurali sono stabiliti da chi quella camera controlla, vale a dire i repubblicani. Il loro capogruppo Mitch McConnell ha già chiarito che vuole procedere speditamente, senza l’ascolto di testimoni e concordando, diciamo così, la linea di procedura con la Casa Bianca.
È chiaro che dinanzi a questa prospettiva i democratici cercano di rallentare l’iter e presumibilmente cercheranno di negoziare qualche elemento procedurale che possa loro tornare utile. Cercano in qualche modo di battere il ferro finché è caldo, davanti all’opinione pubblica. E forse sperano che qualche corte federale offra loro elementi a cui appigliarsi. Penso ad esempio al caso di John Bolton, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, a cui il presidente, come a tutti i funzionari della Casa Bianca, ha intimato di non rispondere al mandato a comparire, Bolton ha detto che se mai una corte glielo intimasse, allora lui acconsentirebbe a deporre davanti al Congresso. Lasciando intendere che qualche cosa da dire l’avrebbe… Va da sé che i democratici ci contano e cercano di guadagnare il tempo necessario perché ciò avvenga.
I repubblicani, anche quelli più critici nei confronti del presidente, fanno quadrato. Trump li ha in mano, o è il partito che non vuole correre rischi? Volendo usare un’espressione un po’ forte, direi che Trump è il Frankenstein che i repubblicani si sono costruiti in casa e che ormai non riescono a controllare.
Ora è lui ad avere in mano il partito. Tutti i sondaggi confermano che la base repubblicana sta con Trump, il che lo rende inattaccabile, se non da qualcuno che ormai ha deciso di non farsi rieleggere il prossimo novembre. Chi vuol fare politica nel partito non può mettersi contro Trump. Quello repubblicano è un partito molto più coeso ideologicamente; omogeneo demograficamente e razzialmente: è anziano e bianco, prevalentemente maschile. Ne deriva la mancanza di una dialettica paragonabile a quella interna al partito democratico, combattiva e ricca, a favore, tuttavia, di una compattezza sicura su temi divisivi.
I candidati democratici stanno alla larga dall’argomento. Lo temono?
In realtà il loro silenzio deriva dal fatto che sono tutti d’accordo sull’impeachment, e da molto tempo, ben prima che Pelosi decidesse di procedere. Il fatto è che i candidati sono in questo momento impegnati a distinguersi gli uni dagli altri, e l’impeachment non è un terreno su cui possano farlo. Dunque non è che si tengano alla larga: sanno che chi voterà alle primarie è in stragrande maggioranza favorevole all’impeachment, non è quella la porta che devono sfondare. I temi su cui battersi sono altri.
Davvero l’impeachment sarà un suicidio per il partito democratico, come ha detto Trump? E come ne uscirà il presidente?
Se osserviamo gli indici di popolarità di Trump in una prospettiva storica, dalla fine degli anni Trenta, comparandoli con quelli dei suoi predecessori, vediamo che non c’è mai stato un presidente i cui tassi di consenso siano stati tanto stabili come i suoi. Trump si mantiene costantemente tra il 40 e il 45%. Qualsiasi cosa scriva o faccia. Può sembrare incredibile, ma è così.
A cosa serve allora l’impeachment? Serve ai democratici per mobilitare, galvanizzare il proprio elettorato con una narrazione che dipinge Trump come un presidente inadeguato e pericoloso per la democrazia stessa.
I repubblicani propongono una narrazione opposta, secondo la quale i democratici invece di occuparsi del bene del Paese cercano di sovvertire l’esito delle elezioni, trattandosi della solita vecchia Washington corrotta e autoreferenziale. Le due narrazioni opposte non servono a convincere la controparte, risultato ritenuto ormai impossibile, ma a saldare il consenso della propria parte.
In mezzo, una frazione minima di elettorato indipendente che deve ancora essere persuaso. Questi elettori saranno decisivi: convincerli sarà l’operazione che determinerà l’esito del voto.