L’uomo che guardava il cinema
Un bel film che, muovendosi fra tragedia e farsa, tra Palestina, Parigi e New York, abbozza una riflessione sull’assurdità del potere. Idee interessanti che però rimangono in superficie. ‘Il Paradiso probabilmente’ di e con Elia Suleiman
“Il mondo come se fosse un microcosmo della Palestina”. Così Elia Suleiman presenta il suo ‘Il Paradiso probabilmente’, film che dopo il concorso a Cannes – dove si è guadagnato una menzione speciale della giuria – è da poco arrivato nelle sale della Svizzera italiana. La Palestina diventa quindi una sorta di metafora, di lente attraverso la quale guardare il mondo. E non è un caso che la parte migliore del film sia proprio quella iniziale, ambientata a Nazareth e che dovrebbe appunto fornire quella chiave di lettura che poi nel prosieguo dovremmo applicare a Parigi e a New York – ma dove, purtroppo, lo sguardo intelligente del regista palestinese cade in un manierismo che rischia di annoiare lo spettatore.
Ma andiamo con ordine: sullo schermo vediamo – e il verbo non è scelto a caso: nel film ci sono pochissimi dialoghi – E.S., palestinese interpretato da Suleiman stesso che, deluso dalla vita in patria, decide di partire, di cercare un altro luogo da poter chiamare casa. Prima, appunto, a Parigi e poi a New York. Ovviamente
non andrà bene, perché alla fine ovunque E.S. si trovi si ritroverà davanti agli occhi quelle situazioni grottesche e surreali che caratterizzavano la sua esistenza a Nazareth. Perché la fuga non potrà mai essere una fuga da sé stessi? Perché saremo sempre legati alla terra in cui siamo nati? Perché le tensioni geopolitiche palestinesi sono in realtà globali? Perché alla fine a essere grottesca e surreale è l’umanità stessa? Perché la patria è più uno stato d’animo che un luogo?
Il mondo come se fosse un microcosmo della Palestina
Non lo sappiamo, perché Elia Suleiman non ce lo dice: né come regista né come attore. Sullo schermo rimane in silenzio, osservando con sguardo ironico e un po’ irriverente – siamo dalle parti di Jacques Tati e Buster Keaton – le ragazze che passeggiano, poliziotti che inseguono venditori abusivi di rose, carrarmati che marciano per il 4 luglio, tassisti entusiasti di incontrare un autentico palestinese, mamme armate con fucili d’assalto eccetera eccetera. Ma Suleiman rimane in silenzio anche dietro la macchina da presa: alla fine il suo è un film che non dice nulla, per quanto il titolo (e un po’ di più le note di regia, da cui abbiamo preso la citazione iniziale) accenni a una possibile lettura. Ma questa idea, peraltro suggestiva, di “globalizzazione dell’assurdità del potere” rimane sulla superficie: e anche senza volere un cinema didascalico che tutto spiega, un po’ più di coraggio nel portare la propria visione non avrebbe guastato.
Intendiamoci: Elia Suleiman è un bravissimo regista. Si rimane incantati di fronte alle scene che allestisce con notevole sapienza cinematografica, della maestria con cui passa dalla commedia alla farsa, mettendo in cortocircuito il tragico e il ridicolo degli esseri umani. Solo che questi quadri umani dopo un po’ stancano, soprattutto quando dalla Palestina – dove troviamo i momenti migliori del film, come i due fratelli al ristorante o, proprio all’inizio, il prete ortodosso che si ritrova una porta chiusa alla processione pasquale – si passa a Parigi e New York, cadendo un po’ nei luoghi comuni (le attraenti ragazze parigine, gli americani armati fino ai denti…). Ottimo materiale per un corto o un mediometraggio, un po’ poco per costruirci un film vero e proprio.