Multiculturalità e integrazione
(...) rafforzare la grande capacità che l’uomo ha di far valere le sue capacità psichiche e cognitive nel gestire il mondo che lo circonda. La prospettiva multiculturale ci rende capaci di comprendere che siamo tutti membri di un’unica comunità, che dovrebbe evitare i conflitti etnocentrici, ma soprattutto ci rende capaci di agire in funzione della salvaguardia del gruppo umano nel suo insieme. In una società come la nostra aperta alla multiculturalità si può parlare di integrazione? Cominciamo a chiederci cosa significa integrazione. Integrarsi non vuol dire annullare le differenze, non vuol dire adattarsi a subire un processo di acculturazione e di inglobamento all’interno di una cultura dominante. Integrarsi significa trovare un proprio spazio vitale e di espressione delle proprie peculiarità all’interno di un sistema di riferimento che non cancella le diversità, ma le esalta e le ricompone in un quadro multiforme e ricco. Esiste però anche un relativismo più subdolo e pragmatico, che al momento in cui si pone il problema del confronto (e soprattutto della convivenza) tra culture diverse, si appella al pluralismo, usando toni meno perentori: viene riconosciuta sì l’esistenza di valori, ma ne viene negato il carattere di verità universale. Si ritiene che siano valori validi per le singole comunità, assolutamente equivalenti tra loro (indifferentismo), senza porsi il problema di cosa accade quando valori e comunità radicalmente diversi vengano in contatto.
La via dell’integrazione
Quando comunità diverse convivono nello stesso territorio, la necessità di un serio dialogo interculturale, capace di individuare diritti e valori fondamentali, diventa pressante. Questi diritti e valori devono essere il presupposto di una reale integrazione delle comunità di immigrati, rifiutando l’idea che nelle nostre città possano esistere “zone franche”. L’integrazione è possibile non solo se passa per il rispetto dei diritti fondamentali, ma anche se trova un minimo denominatore culturale. Bisogna che gli immigrati stabili conoscano la nostra lingua, le nostre leggi (in particolare la Costituzione, “carta dei valori”), doveri sociali; che inizino ad avvicinarsi alla nostra storia e alla nostra cultura. Sapendo che accettare questo denominatore culturale, sentirsi “integrati”, non significa rinunciare alla propria religione o rigettare le proprie tradizioni, come dimostra la sensibilità di un musulmano ‘illuminato’? come Khaled Fouad Allam. Se tutte le società sono sempre state multietniche e multiculturali, quest’ultimo aggettivo oggi si applica perlopiù – come stiamo facendo ora – a società complesse, moderne, contemporanee; società nelle quali l’immigrazione – ovvero la presenza di milioni di migranti – ha prodotto importanti trasformazioni sotto il profilo socioeconomico e culturale. Gli attributi “multiculturalista” e “multiculturale”, dunque, si riferiscono a un modello di relazione specifico. E quello multiculturale è uno soltanto dei vari “modelli di relazione” storicamente elaborati e proposti per rapportarsi e cercare in qualche modo di governare. Si governa non semplicemente con il controllo sociale, infatti, ma soprattutto attraverso l’ideologia e la costruzione di strategie retoriche con cui si dà ai propri interlocutori il senso dei fenomeni connessi ai problemi di tutti i giorni. Insomma: il dialogo richiede coraggio, preparazione, impegno. Chi è pronto, si faccia avanti.