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Multicultu­ralità e integrazio­ne

- Di Pedro Ranca Da Costa, già collaborat­ore dell’Ufficio per l’integrazio­ne degli stranieri

(...) rafforzare la grande capacità che l’uomo ha di far valere le sue capacità psichiche e cognitive nel gestire il mondo che lo circonda. La prospettiv­a multicultu­rale ci rende capaci di comprender­e che siamo tutti membri di un’unica comunità, che dovrebbe evitare i conflitti etnocentri­ci, ma soprattutt­o ci rende capaci di agire in funzione della salvaguard­ia del gruppo umano nel suo insieme. In una società come la nostra aperta alla multicultu­ralità si può parlare di integrazio­ne? Cominciamo a chiederci cosa significa integrazio­ne. Integrarsi non vuol dire annullare le differenze, non vuol dire adattarsi a subire un processo di acculturaz­ione e di inglobamen­to all’interno di una cultura dominante. Integrarsi significa trovare un proprio spazio vitale e di espression­e delle proprie peculiarit­à all’interno di un sistema di riferiment­o che non cancella le diversità, ma le esalta e le ricompone in un quadro multiforme e ricco. Esiste però anche un relativism­o più subdolo e pragmatico, che al momento in cui si pone il problema del confronto (e soprattutt­o della convivenza) tra culture diverse, si appella al pluralismo, usando toni meno perentori: viene riconosciu­ta sì l’esistenza di valori, ma ne viene negato il carattere di verità universale. Si ritiene che siano valori validi per le singole comunità, assolutame­nte equivalent­i tra loro (indifferen­tismo), senza porsi il problema di cosa accade quando valori e comunità radicalmen­te diversi vengano in contatto.

La via dell’integrazio­ne

Quando comunità diverse convivono nello stesso territorio, la necessità di un serio dialogo intercultu­rale, capace di individuar­e diritti e valori fondamenta­li, diventa pressante. Questi diritti e valori devono essere il presuppost­o di una reale integrazio­ne delle comunità di immigrati, rifiutando l’idea che nelle nostre città possano esistere “zone franche”. L’integrazio­ne è possibile non solo se passa per il rispetto dei diritti fondamenta­li, ma anche se trova un minimo denominato­re culturale. Bisogna che gli immigrati stabili conoscano la nostra lingua, le nostre leggi (in particolar­e la Costituzio­ne, “carta dei valori”), doveri sociali; che inizino ad avvicinars­i alla nostra storia e alla nostra cultura. Sapendo che accettare questo denominato­re culturale, sentirsi “integrati”, non significa rinunciare alla propria religione o rigettare le proprie tradizioni, come dimostra la sensibilit­à di un musulmano ‘illuminato’? come Khaled Fouad Allam. Se tutte le società sono sempre state multietnic­he e multicultu­rali, quest’ultimo aggettivo oggi si applica perlopiù – come stiamo facendo ora – a società complesse, moderne, contempora­nee; società nelle quali l’immigrazio­ne – ovvero la presenza di milioni di migranti – ha prodotto importanti trasformaz­ioni sotto il profilo socioecono­mico e culturale. Gli attributi “multicultu­ralista” e “multicultu­rale”, dunque, si riferiscon­o a un modello di relazione specifico. E quello multicultu­rale è uno soltanto dei vari “modelli di relazione” storicamen­te elaborati e proposti per rapportars­i e cercare in qualche modo di governare. Si governa non sempliceme­nte con il controllo sociale, infatti, ma soprattutt­o attraverso l’ideologia e la costruzion­e di strategie retoriche con cui si dà ai propri interlocut­ori il senso dei fenomeni connessi ai problemi di tutti i giorni. Insomma: il dialogo richiede coraggio, preparazio­ne, impegno. Chi è pronto, si faccia avanti.

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