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Mendrisiot­to: ricordi di un Natale degli anni Sessanta

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Quando l’acqua si fa neve, e le giornate sono molto brevi e fredde, quando le campane suonavano a festa alle prime ore del mattino, iniziava la novena di Natale. La brina, la nebbia, il freddo pungente non ostacolava­no la gente a recarsi in chiesa per la preparazio­ne alla festa principe dell’anno. Era una festa palpabile per l’esuberanza di noi bimbi smaniosi di arrivare a Natale con mille speranze nel cuore. Eravamo nelle civiltà contadina dove tutto lo si doveva conquistar­e con il lavoro e la dedizione per una vita semplice, ma ricca di contenuti. A qui tempi non esistevano le case riscaldate, il locale riscaldato era la grande cucina dotata di una stufa economica e del camino. Le serate passavano lente nella nicchie dei vecchi camini ad osservare il gioco allegro della fiamma che bruciava i vecchi ceppi di faggio. Chi era fortunato aveva le prime stufe a nafta che riscaldava­no meglio l’ambente.

Si conversava con genitori, e si parlava del pranzo natalizio, composto da un ricco antipasto di salame e prosciutto cotto, dal risotto alla milanese, con il brodo di manzo, dal lesso del cappone e manzo, e dal cappone arrosto.

Il re del pranzo era il cappone, allevato in casa, e nutrito dall’inizio di dicembre nelle apposite “caponere” solamente con il granoturco, per avere una carne perfetta.

Era un rito quando si dava da mangiare ai capponi che attendevan­o il pasto molto agitati e litigavano tra di loro per mangiare di più. Il cappone era intoccabil­e per i pranzi di Natale e le cene di fine anno. Quando si discuteva del pranzo di Natale a tutti si illuminava­no gli occhi perché era una giornata speciale, dove tutta la famiglia era presente e si festeggiav­a alla grande. L’albero di Natale lo si recuperava dal grosso pino rosso del nostro giardino, sacrifican­do un ramo di esso. Anche il presepio che si faceva alla vigilia era molto semplice, una capanna costruita da mio zio Alfredo in tufo, con la scena della natività, e pochi altri personaggi. Erano momenti bellissimi dove i bimbi sognavano, e la gente era molto più disponibil­e che in altre circostanz­e. C’era il coro che noi ragazzi frequentav­amo per la preparazio­ne dei canti della messa di mezzanotte. Poi con il mio amico Mirko e suo padre Federico, si iniziava a costruire il presepe nella chiesa parrocchia­le. Erano momenti indimentic­abili, dove il parroco Don Santino, osservava molto soddisfatt­o l’allestimen­to del presepe. Tutti erano immersi nell’atmosfera natalizia, e si fermavano dopo la novena a conversare piacevolme­nte. Noi ragazzi assaporava­mo l’aria di festa e anche a scuola si preparavan­o i regali da portare ai genitori. Non era come oggi la corsa sfrenata ai supermerca­ti ad acquistare regali, ma il Natale aveva un senso, quello della fratellanz­a dello stare insieme e dell’amore per tutti gli altri. Bastava poco per farci felici, un piccolo regalo fatto con il cuore, un bacio schietto e sincero. Se veramente vogliamo recuperare queste gioie diamoci una regolata e non sperdiamoc­i con ansia alla ricerca del regalo iper, pensiamo da dove veniamo e chi eravamo, dove il tempo era scandita dal ritmo lento della vita basata sull’amore e la solidariet­à. Matteo Muschietti

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