Il caso de Chirico
A Palazzo Reale a Milano fino al 19 gennaio una mostra per riscoprire il celebre pittore
Dalla Metafisica alle Piazze d’Italia alle enigmatiche opere della maturità, un viaggio attraverso le opere del ‘pittore più sorprendente della giovane generazione’, come lo definì Apollinaire
C’è chi, semplificando, afferma che l’arte moderna sarebbe nata a Parigi, nei primi del ’900, ad opera di due stranieri: Picasso (1881-1973), spagnolo, e de Chirico (1888-1978), un italiano nato in Grecia e formatosi a Monaco (dove però operava un certo Kandinski, per fare un solo nome!). La nascita del moderno, insomma, ha alle spalle una storia più complessa e articolata. È indubbio, comunque, che da Picasso (e Braque) discende il grande fiume del cubismo e non poco altro ancora; mentre a de Chirico si deve l’invenzione della Metafisica che anticiperà atmosfere e invenzioni assai affini a quelle del Surrealismo e a quanto ne segue. Li accomuna inoltre, in non pochi tratti del loro percorso, l’esplicito richiamo al mondo del mito e della cultura classica anche se accostati dai due in maniera e con implicazioni profondamente diverse.
Certo è che, nella Parigi del terzo lustro, la Metafisica è davvero il segno di un diverso orientamento, parallelo e opposto, non solo rispetto al Cubismo ma anche alle altre varie tendenze del moderno: dal futurismo all’orfismo all’École de
Paris. De Chirico, insomma, viene presto identificato come un déraciné che non appartiene a nessuna delle correnti dell’epoca, vive nella Parigi delle avanguardie, ma anziché guardare in avanti guarda indietro, a un lontano passato, e si inventa una propria sorprendente avanguardia che chiamerà Metafisica. La cosa non passa inosservata: nell’ottobre 1913, Guillaume Apollinaire lo definisce: «[...] il pittore più sorprendente della giovane generazione», proprio perché la sua pittura suona una musica completamente diversa rispetto a quella degli altri musicanti: il che lo porrà, giustamente, in una posizione di tutta evidenza. Da lì prenderà poi avvio quella “mitologia” attorno al giovane artista e all’unicità della sua pittura che egli saprà incrementare con abile regia ma soprattutto con la grande Metafisica degli anni ferraresi che farà di lui un maestro: come documentano in mostra lo straordinario dipinto del 1913, proveniente dal Metropolitan Museum di New York, le sue altre Piazze d’Italia ed i manichini o gli interni claustrofobici ingombri di oggetti accatastati, deprivati di senso e funzione, degli anni 1916-1917. Resta però anche vero – e la rassegna milanese ne è la piena conferma – che a 50 anni dalla sua precedente antologica a Palazzo Reale (1970) il “caso” de Chirico non è ancora pacificamente risolto e pienamente compreso. Il fatto è che a un certo punto, nel 1919, de Chirico – giunto al punto più alto e riconosciuto del suo straordinario decennale percorso – di botto rovescia il tavolo, spariglia tutte le carte e si mette a dipingere in maniera completamente diversa lasciando stupefatti e disorientati il pubblico, il mercato, la critica (Longhi lo stronca!), gli stessi compagni di cordata. Se quei primi dieci anni potevano essere letti come lo sviluppo lineare e coerente, in crescendo, di una poetica, tanto nel pensiero soggiacente quanto nelle forme dell’immaginario dipinto; a partire dal ’19 de Chirico sente che può permettersi di tutto: non si cura più della coerenza formale, salta da uno stile all’altro, opera contemporaneamente su più filoni e stili, arriva perfino, palesemente e consapevolmente, alla “brutta pittura” e al Kitsch: alterna nature morte di squisita fattura, filtrate dalla memoria di Delacroix, a gladiatori o cavallini orribili solo a vedersi, declina richiami romantici accanto alla sontuosità delle paste barocche o dei costumi spagnoli secenteschi.
Di più: a partire dal 1939 inizia a duplicare le sue stesse opere, a retrodatarle, scombussolando il mercato ma rispondendo anche in questo modo alla domanda crescente di sue opere Metafisiche, alla fine mette in scena anche se stesso: si veste come un attore in panni spagnoleggianti e si ritrae come un “Caballeros” di quell’epoca con tanto di spada o rilascia interviste ammantato in abiti spagnoli. È il teatro, è la messa in scena dove ironia ed autoironia si mescolano di continuo. L’osservatore lo vede e capisce: si sente provocato e sfidato, avverte che de Chirico lo sta pungolando: per esempio accostando un nudo femminile di perfetta anatomia e di chiara memoria giorgionesca a un nudo maschile dove gambe e piedi non si allineano con il busto che si eleva oltre il perizoma. Ma non sa rispondere, non gli è facile capire, dare un senso, una logica a tutto questo. Non lo faremo neppure noi, ma la sfida è intrigante. E rimane aperta ancor oggi.