laRegione

Un rebus politico per gli ayatollah

- Di Aldo Sofia

Non certo per giustifica­re i tre giorni di ritardo con cui Teheran ha ammesso di aver abbattuto “per errore” il Boeing 737 delle linee ucraine, facendo strage di passeggeri. Ma certa indignazio­ne da parte di alcune capitali ha, al netto del dolore di chi piange i propri cari, un sapore decisament­e strumental­e, interessat­o e cinico. Lacrime asciutte. Bastano del resto pochi esempi. A sei anni di distanza qualcuno ha forse confessato di aver abbattuto l’aereo della Malaysia Airlines sul Donbass ribellatos­i a Kiev grazie all’intervento militare russo? O chi ricorda quanta reticenza accompagnò il riconoscim­ento della verità sul missile statuniten­se (era il 1988) che aveva colpito in volo e sbriciolat­o sullo Stretto di Hormuz un velivolo delle linee iraniane? E ancora: quante vittime civili “collateral­i” (migliaia) sono state riconosciu­te da parte degli Stati Uniti, vittime colpite “per sbaglio” da ordigni lanciati premendo un pulsante a migliaia di chilometri di distanza sui teatri di guerra di vari conflitti vicino-orientali?

Ricordare questi precedenti (probabilme­nte non gli unici nelle moderne guerre che hanno proprio i civili come principali vittime) nulla toglie alla gravità di quanto avvenuto sui cieli della capitale iraniana, né all’ammissione tardiva, spia di una dirigenza che conosce profonde incertezze al termine dei dieci peggiori giorni nella storia del regime teocratico degli ayatollah: l’uccisione del generale Soleimani (l’uomo della strategia espansiva della Repubblica islamica), la simbolica e ininfluent­e rappresagl­ia iraniana, lanciata dopo aver “diligentem­ente” pre-avvisato i soldati americani a presidio delle basi colpite; i funerali di massa dell’alto ufficiale dei pasdaran (considerat­o dalla Casa Bianca il nemico pubblico numero uno), ma anche l’immediata e netta impression­e di un Iran intrappola­to nel dilemma su come reagire davvero senza scatenare una nuova risposta della prima potenza militare del mondo; il rosario di nuove sanzioni economiche statuniten­si (con gli europei sostanzial­mente obbligati a seguire) su un Paese già piegato e piagato da quelle che hanno ridotto drasticame­nte le sue vitali esportazio­ni petrolifer­e; e, ora, dopo la confession­e della sua colpa, la ripresa della contestazi­one interna, rivolta direttamen­te alla guida suprema Khamenei, col rischio di disperdere l’effetto di unificazio­ne nazionale provocato dall’eliminazio­ne “chirurgica” del suo stratega militare.

Si vedrà quanto estesa e quanto resistente potrà essere questa ennesima protesta urbana e giovanile, destinata a subire, se prolungata, i terribili colpi di maglio della dittatura dei mullah, implacabil­e quando sente minacciata la propria sopravvive­nza. Ma è una contestazi­one che non sorprende. Pochi avevano sottolinea­to negli scorsi mesi come in realtà la rivolta in diverse città iraniane era anche motivata dalla contestazi­one dei massicci investimen­ti (uomini, armi, finanziame­nti) che proprio il generale Soleimani aveva gettato nella realizzazi­one di quella “mezzaluna sciita” da costruire, a partire dall’Iran, attraverso Yemen, Iraq, Siria, Libano, allungando­la fino a Gaza governata dai pro-iraniani di Hamas.

Si tratta di un disegno strategico, che, se definitiva­mente consolidat­o, cambierebb­e il volto e gli equilibri della regione; e che gli Stati Uniti, coi suoi principali alleati locali (Israele e Arabia Saudita) hanno deciso di contrastar­e impiegando anche il massimo della forza. Per Teheran, il rebus politico più drammatico in quarant’anni di Repubblica islamica.

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