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Contro il moralismo del fact checking

Dal consiglier­e federale Ueli Maurer a Facebook, la verifica dei fatti sta diventando oggetto di un ‘moralismo della verità’ controprod­ucente (e come tutti i moralismi ipocrita)

- Di Ivo Silvestro

Un tempo c’erano le smentite: un giornale pubblicava qualcosa di inesatto – o qualcosa che per qualche motivo non era ancora il caso di rendere pubblico – e arrivava un comunicato stampa che, appunto, smentiva la notizia. Adesso il consiglier­e federale Ueli Maurer ha cambiato i termini, inaugurand­o una sezione di “verifica dei fatti” sul sito del Dipartimen­to federale delle finanze. Si trattasse solo di una scelta di parole, la cosa non meriterebb­e più di un’alzata di spalle. Ma il primo ‘fact checking’ mostra che la questione è più complessa. È capitato infatti che il ‘Tages Anzeiger’, in un’intervista all’artista cinese Ai Weiwei, scrivesse che Maurer “ha sottoscrit­to il controvers­o memorandum d’intesa con la Cina sulla nuova Via della seta”. In realtà, si legge sul sito internet del Dipartimen­to federale delle finanze, il documento “è stato firmato dalle segretarie di Stato Marie-Gabrielle Ineichen-Fleisch, direttrice della Segreteria di Stato dell’economia (Seco), e Daniela Stoffel, direttrice della Segreteria di Stato per le questioni finanziari­e internazio­nali (Sfi)”.

‘Scusi sa che ore sono?’

La verifica dei fatti è importanti­ssima, e non solo per i giornalist­i: tutti, parlando con altre persone e pubblicand­o qualcosa sui social media, contribuis­cono alla diffusione di informazio­ni. E anche prima che le ‘fake news’ diventasse­ro un tema d’attualità era chiaro che più le informazio­ni sono “buone” meglio è – dal momento che è (anche) a partire da quelle informazio­ni che prendiamo delle decisioni e cattive informazio­ni portano a cattive decisioni.

Si potrebbe quasi parlare di un dovere – quantomeno morale – di controllar­e i fatti di cui parliamo. E se questo controllo non è stato fatto o se è sfuggito qualcosa, di un dovere di far presente l’errore: per dare la possibilit­à di una correzione, per segnalare l’informazio­ne errata agli altri o, nella peggiore delle ipotesi – cioè di avere a che fare con uno “spacciator­e di bufale” –, per far capire che è meglio stare alla larga da quella fonte lì perché inaffidabi­le.

In realtà correggere un’informazio­ne non vera – imprecisa, non più attuale o addirittur­a completame­nte inventata – è una cosa tutt’altro che banale, perché c’è il rischio di diffondere e rinforzare la notizia che si vorrebbe smentire. Ma non è questo il punto.

Il punto è che un’informazio­ne è buona non solo quando si è verificato tutto quello che può essere verificato. Insomma, la verità non basta, per giudicare la qualità di un’informazio­ne qualsiasi, dalle indicazion­i stradali per la stazione alla presentazi­one di un film alle spiegazion­i dei temi in votazione nelle prossime settimane. Quello che vogliamo – o che dovremmo volere – sono informazio­ni che siano non solo vere, ma anche pertinenti alla discussion­e, che non siano ambigue e né troppo dettagliat­e né troppo superficia­li. Si tratta delle quattro “massime conversazi­onali” con cui il filosofo del linguaggio Herbert Grice ha riassunto il comportame­nto di un parlante cooperativ­o – insomma di una persona che ha voglia di capire e di farsi capire: qualità (di’ cose che ritieni vere), quantità (di’ quello che è necessario dire, niente di più niente di meno), relazione (resta sul tema) e modo (evita oscurità e ambiguità).

Il fact checking riguarda solo il principio di qualità, insomma la verità di quanto affermato: aspetto indubbiame­nte importante ma che da solo non basta. Perché possiamo avere una buona informazio­ne non del tutto vera (tipicament­e è il caso di una semplifica­zione) e una cattiva informazio­ne del tutto vera (perché incomprens­ibile, incompleta o fuori contesto). Aspetti peraltro considerat­i dal Consiglio svizzero della stampa nelle sue decisioni.

Soffermars­i unicamente sulla verità e trascurare gli altri aspetti non contribuis­ce a migliorare la circolazio­ne dell’informazio­ne. Anzi diventa una sorta di “moralismo della verità”, dove si prende la correttezz­a formale di quanto affermato e se ne fa un dogma per lavarsi la coscienza e zittire gli altri.

Così la precisazio­ne di Ueli Maurer sui nomi delle persone che hanno materialme­nte firmato un pezzo di carta suona non solo pedante, ma va fuori contesto: l’osservazio­ne riguardava l’opportunit­à politica di stringere accordi con un Paese come la Cina ma invece di difendere le valutazion­i fatte, si è preferito rispondere che a prendere in mano la penna sono state le direttrici della Seco e della Sfi. Un po’ come rispondere “sì” alla domanda “scusi sa che ore sono?”.

Il custode della verità

Ancora peggio se dal Dipartimen­to federale delle finanze – che alla fine sotto l’altisonant­e e un po’ inquisitor­io cappello di “verifica dei fatti” non fa altro che la solita smentita che in realtà non smentisce nulla, tipica delle autorità di mezzo mondo – si passa ai social media che paiono affrontare il problema della qualità dell’informazio­ne con “moralismo del fact checking”, prendendo in consideraz­ione unicamente la veridicità e non l’ambiguità o la pertinenza – con cui si possono benissimo trarre in inganno le persone, ma non importa: basta che i fatti riportati, anche se non c’entrano nulla, siano corretti. Così ecco che alcuni contenuti si guadagnano l’etichetta di “informazio­ne falsa” (o talvolta solo “contestata”) in base a verifiche di “fact-checker indipenden­ti”, vuoi per questioni di imparziali­tà, vuoi perché certi servizi è più comodo esternaliz­zarli. Peraltro, come tutti i moralismi, si accompagna a un certo grado di ipocrisia, dal momento che Facebook esenta i politici dall’onere della verità (mentre Twitter si guarda bene dal sollevare un sopraccigl­io su quel che pubblica Trump, anche quando condivide siti di bufale). Esempio di questo moralismo della verità, le immagini che di per sé non ha molto senso dire se sono vere o false: possono essere fuorvianti, ed è certo il caso dei fotomontag­gi spacciati per foto autentiche – ma il problema non è l’immagine, bensì come viene presentata.

Così con gli incendi in Australia è capitato che un’immagine satellitar­e modificata per mostrare tutti i focolai delle ultime settimane sia stata bollata come “informazio­ne falsa”. Ma falsa era al massimo la descrizion­e (foto satellitar­e degli incendi in corso) con cui alcuni l’hanno condivisa. Una disavventu­ra che suggerisce una possibile strategia: invece di attribuire etichette di vero e falso, migliorare la trasparenz­a con cui condividia­mo le informazio­ni.

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ANTHONY HEARSEY Questa non è l’Australia (ma è vera lo stesso)

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