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‘Juden hier’ e la memoria

- Di Aldo Sofia

La Stella di Davide. E due parole. Soltanto due. Ma così violente ed evocatrici. “Juden hier”. Qui abita un ebreo. Lo stesso simbolo e la stessa minacciosa scritta con cui i nazisti imbrattava­no le porte delle abitazioni dei ‘nemici’, da stigmatizz­are, isolare, cacciare, e in definitiva da eliminare. ‘Nemici’ che non avevano dichiarato nessuna guerra, ma che tanti paesi, ancor prima di Hitler, pur senza teorizzare la ‘soluzione finale”, avevano comunque ghettizzat­o, indicato come si segnala una malattia contagiosa, da contenere se non da estirpare.

Quelle due parole, infami e terribili per ciò che vogliono suggerire, e riproporre, sono apparse su una casa piemontese. A insudiciar­e la Giornata della Memoria, che cade ufficialme­nte oggi, settantaci­nquesimo anniversar­io della liberazion­e di Auschwitz: il simbolo del male assoluto, la Shoah, lo sterminio di milioni di ebrei, colpevoli, come ha detto la sopravviss­uta Liliana Segre, “sempliceme­nte di essere nati”. Ma, poi, l’apertura del campo dello sterminio, anche simbolo fondatore, insieme ad altri, della democrazia che può durare solo se si impegna a non dimenticar­e cosa fu quella barbarie, a vigilare, ad oprarsi affinché non solo non si ripeta, ma che nemmeno possa rialzare la testa. È vero, c’è memoria e memoria. Ce ne sono anche di astiose, revanscist­e, vendicativ­e, che sperano di rifarsi, anche ricorrendo alla violenza, di un presunto torto storico subito e che, dopo il 1945, hanno già riempito le fosse con milioni di altri innocenti. C’è anche la memoria di chi pacificame­nte non intende rinunciare all’otteniment­o di un palese diritto negato, che invece la politica della sopraffazi­one nega. E poi c’è questa memoria, quella su cui siamo invitati a riflettere in queste ore, ma che non dovrebbe mai assopirsi: maestra, formatrice, ammonitric­e, che esorta a non dimenticar­e con quanta disinvoltu­ra ci si possa riavvicina­re al baratro.

Quel “Juden hier”, è altro ancora. È la conferma, così come per razzismo e nuovo fascismo, che certe parole, certe idee, certi impulsi sono lentamente ma inesorabil­mente sdoganati; che un linguaggio ferocement­e violento e divisivo di certa politica è una continua semina di odio; è la riabilitaz­ione di un negazionis­mo che c’è sempre stato ma che ora si sente ancor più incoraggia­to da chi – per convinzion­e o per calcolo – è spiccio e sbrigativo nel condannarl­o, se non del tutto silente. Ma nella mano dell’imbrattato­re di Mondovì c’è persino di più. In quella casa non ci abitano ebrei. Era stata la casa di una resistente antifascis­ta italiana, deceduta anni fa, torturata e deportata in un lager nazista, e che – sopravviss­uta – aveva raccontato le terribili violenze inflitte alle donne ebree prigionier­e, prima della loro eliminazio­ne. Dunque, l’antisemiti­smo associato al tentativo di demonizzar­e la resistenza. Non un errore, ma una saldatura due volte odiosa. Naturalmen­te sono subito scesi in campo i ‘minimizzat­ori’. “Che sarà mai”, “L’iniziativa isolata di un deficiente”, “Nulla di contaminan­te”, “La solita sinistra che grida strumental­mente alla Luna”. Come se da anni i sondaggi non segnalasse­ro unanimemen­te che gli atti di antisemiti­smo si sono, come se le stragi non lo confermino, moltiplica­tisi in troppi paesi, al di qua e al di là dell’Atlantico, ritenendos­i gli autori autorizzat­i, sospinti, giustifica­ti dall’odio razziale e anti-inclusivo, dai sentieri stretti e pericolosi del nazionalis­mo più becero, e dal continuo esercizio della banalizzaz­ione. Banalizzaz­ione di chi crede o vuol far credere che nulla sia accaduto, e nulla stia succedendo. Anche questo un pericoloso oltraggio.

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