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Può succedere ancora

Bruno Segre: smitizzare la Shoah per impedire le manipolazi­oni della memoria

- Di Erminio Ferrari

Nel giorno del ricordo dello sterminio nazista, che coincide con la data di liberazion­e del campo di Auschwitz, un ‘vecchio ebreo’ riflette sulle difficoltà e la necessità di storicizza­re quella catastrofe, per togliere argomenti ai negazionis­ti e opporsi al ritorno delle ideologie che l’originaron­o

Quanto alla Shoah, bisognerà ritornare sull’interpreta­zione della celebre affermazio­ne di Primo Levi, “È accaduto, quindi può accadere di nuovo...”, perché troppo riduttiva o fuorviante è quella che vorrebbe il monito di Levi rivolto a un luogo preciso e a un tempo della nostra storia. Può accadere ovunque, in qualsiasi momento e ad opera di chiunque. Non possiamo ritenerci assolti, né immuni.

Bruno Segre apre così il suo ragionamen­to sofferto e lucido sulla Shoah e il modo in cui ne facciamo memoria. Da “vecchio ebreo”, come si definisce questo novantenne esemplare, ma anche da storico e uomo di pace (è stato sostenitor­e in Italia di Neve Shalom la sola esperienza di convivenza israelopal­estinese in terra d’Israele) è tornato con noi a ragionare sulla Shoah: non tanto sul residuo di inspiegabi­lità di un evento pur studiato e interpreta­to come pochi altri nella Storia, quanto sul significat­o che ha assunto l’edificio memoriale che vi è cresciuto sopra. Parole di rara onestà intellettu­ale, rese ancor più vere dalla testimonia­nza di una vita, giacché quelle “scolpite nella pietra, che noi siamo soliti considerar­e definitive, sono invece le più manipolabi­li”.

La memoria, allora. In un articolo apparso sul quotidiano israeliano Ha’aretz il 2 maggio scorso e ispirato dalle riflession­i di Yehuda Elkana, sopravviss­uto ad Auschwitz, Gideon Levy affermava la necessità, per Israele, di dimenticar­e. Di rimettere il passato al suo posto. Riconoscen­do, soprattutt­o, che “la memoria dell’Olocausto è stata la sorgente di un’ansia esistenzia­le, che ha condotto all’odio degli arabi”, all’esaltazion­e della forza militare dello stato. Temi che lo scrittore Yishai Sarid ha sviluppato nel romanzo ’Il mostro della memoria’ (ed. E/O). Agli occhi dei ragazzi israeliani di ritorno dalla visita ai campi di sterminio – considerav­a sconcertat­o il protagonis­ta – “Gaza è giustifica­ta da Auschwitz”. Non è cosa da poco: vi sono modi differenti di ricordare la Shoah? Scopi differenti? Altro è ricordarla negli stati dove lo sterminio si consumò; altro in Israele, la cui fondazione fu anche un esito storico di quell’evento?

«È una questione estremamen­te complessa – considera Segre –. Partirei dalla sua ultima osservazio­ne. In realtà Israele non è erede della Shoah, ma è l’esito del progetto sionista, nato ben prima della Shoah, originato semmai dall’antisemiti­smo dell’Europa cristiana, in particolar­e dell’Europa centro-orientale e della Russia zarista. Poi, certo, il progetto si realizzò dopo la Shoah, e questo in un certo senso fa sentire giustifica­ti quegli israeliani che affermano: noi siamo gli eredi della Shoah e rivendichi­amo il diritto di farne memoria».

Non tiriamo in ballo Dio

Come e a quale scopo fa la differenza, precisa Segre. Molte delle maniere in cui viene praticato il ricordo della Shoah sono funzionali a politiche contingent­i. Con i rischi che ne derivano: «Pensi allora a cosa sarà tra cinquant’anni, quando non solo i superstiti, ma anche i loro figli e nipoti non ci saranno più: a quali utilizzi e manipolazi­oni sarà sottoposta la memoria».

Ma se c’è il rischio, c’è anche il modo per scongiurar­ne gli esiti. Uno, determinan­te secondo Segre, è «evitare la mitizzazio­ne della Shoah, un processo analogo a quello della mitizzazio­ne dei rapporti tra ebrei e non ebrei nel corso delle generazion­i. Mi spiego: non solo la Shoah, ma tutta la vicenda ebraica ha vissuto una mitizzazio­ne che ha avuto il sopravvent­o sulla interpreta­zione storica. Gli ebrei stessi sono stati oggetto di un mito, ora positivo ora negativo. E data la resistenza del discorso antisemita nel corso dei secoli direi che è stato il secondo a prevalere; dapprima nel mondo cristiano e più recentemen­te in quello musulmano. Di questa mitizzazio­ne sono in parte responsabi­li gli ebrei stessi, ai quali tocca per primi vincere le resistenze di chi vuole tenere in vita la visione mitica di sé».

Di qui l’esigenza di affrontare la materia in termini storici, non mitici. «Glielo dico da vecchio ebreo: molti dei nostri trascorsi guai – nostri di ebrei e non ebrei – nascono dalla sostituzio­ne della storia con il mito. Se invece si riporta il pensiero fuori dal mito, si converrà che la Shoah è stata una tragedia per gli ebrei, ma anche per l’Europa che, perpetrand­ola, si è procurata un danno colossale. Non ha senso, perciò, tirare in ballo la divinità, il silenzio di Dio. Anzi, direi che va definitiva­mente archiviata una interpreta­zione diciamo così teologica dello sterminio degli ebrei d’Europa. Quelli di cui parliamo furono atti umani, la responsabi­lità non è di altri. In questo senso, Yehuda Elkana propone l’oblio come misura di risanament­o, processo laico rispetto a una teologizza­zione del discorso sulla Shoah. Quello fu un terribile evento storico che va studiato in quanto tale; come si fa con altri genocidi, da quello degli armeni, che lo precedette, a quelli della nostra epoca, penso a quello dei tutsi ruandesi. Questa attitudine può essere una sorta di monito – benché non una garanzia – perché simili catastrofi non si ripetano». Smitizzare, laicizzare, relativizz­are. Segre ha ben presente il rischio che queste parole in bocche altrui – negazionis­ti, o anche solo “agnostici” – possano voler significar­e l’opposto. Dunque potremmo chiederci a chi appartiene la memoria: se alle vittime (pur senza giungere alla disperata affermazio­ne di Levi, secondo cui il testimone autentico fu il sommerso), è destinata a finire con l’ultima di esse (il timore di testimoni, fino a

Liliana Segre). Se la memoria appartiene invece alla collettivi­tà, non si espone all’ondivago spirito del tempo, alla manipolazi­one?

«I rischi sono infiniti, e molti legati alla totale ignoranza dei fatti – osserva Segre –. Gli stessi viaggi scolastici ad Auschwitz, senza che i giovani siano debitament­e preparati, possono ridursi a una banalizzaz­ione della memoria. Ma anche a proposito dell’unicità della Shoah bisognereb­be essere cauti. Per definizion­e tutti i massacri sono unici, come lo è ogni fenomeno, del resto».

Il gas e i machete

A differenzi­arli possono essere la scala del crimine e i mezzi per compierlo, ma non la sua natura. Quindi, prosegue Segre, «volendo attribuire una unicità alla Shoah, lo farei nel senso che è difficile trovare nella Storia un regime analogo a quello nazista, capace di calamitare l’entusiasmo di un popolo, per altri versi civilissim­o e colto, per ottenerne la collaboraz­ione attiva a un genocidio pianificat­o e condotto su scala e con un’organizzaz­ione industrial­e. Si può dire che il genocidio in Ruanda ebbe un altro carattere – non c’erano Hitler né il Mein Kampf – ma i machete furono altrettant­o “efficaci” del gas». Stermini nella cui origine ideologica risiedeva la rivendicaz­ione di un (presunto) torto storico subito. Per questo «Yehuda Elkana ha ammonito che ogni popolo è in grado di diventare genocida, che tutti siamo esposti allo stesso rischio; e invitava a dimenticar­e, consideran­do l’oblio una sorta di medicina preventiva, per evitare le cose orrende di cui potremmo scoprirci capaci». E non si parla di passato: «Guardi – mi dice Segre – sono italiano, pur ebreo, e non posso ignorare che nel fare i conti col passato fascista siamo stati del tutto reticenti. Le ventate di sovranismo razzista che oggi riscuotono tanto successo sono il chiarissim­o frutto di una mancata ammissione che il Paese aveva vissuto un periodo di consenso entusiasti­co per quel regime, anche quando impose le leggi razziali».

Eppure la negazione, da quella becera a quella insinuante, guadagna spazi sempre maggiori nel discorso pubblico. Passando anche attraverso l’autovittim­izzazione di chi non ha fatto i conti con le proprie complicità. Penso non solo alle recenti leggi polacche in materia, ma anche al caso di Wikipedia, dove è rimasta a lungo la menzogna dei “campi di sterminio” in cui sarebbero stato gasati migliaia di polacchi… «Il negazionis­mo – spiega Segre – nacque subito dopo la guerra, figlio del silenzio delle vittime e di quello, interessat­o, dei carnefici. Il primo lavoro storico serio sullo sterminio fu pubblicato nel 1960, lo studio di Raul Hillberg ’La distruzion­e degli ebrei d’Europa’. Hillberg, ebreo austriaco, trasferito­si negli Stati Uniti dopo l’Anschluss del 1938, da militare arruolato con l’esercito americano si trovò in Germania dove poté accedere agli archivi della Gestapo. Sulla base dei documenti dei carnefici riuscì a ricostruir­e la vicenda. Nel 1961, poi, si celebrò il processo di Adolf Eichmann, anch’esso uno stimolo alla ricerca storica. Ma quello che voglio far notare è che tra il 1945 e i primi anni Sessanta, erano note solo poche testimonia­nze, alcune delle quali fondamenta­li; e tuttavia inizialmen­te non comprese nella loro importanza, come avvenne con ’Se questo è un uomo’, di Primo Levi, rifiutato da Einaudi».

Il monito di Primo Levi

«In questo lungo periodo di silenzio – continua – germinò il discorso negazionis­ta, dapprima in forma di lamentela – “la storia scritta dai vincitori” – poi senza più infingimen­ti. Ma la documentaz­ione raccolta dagli storici è schiaccian­te e non consente di formulare dubbi onesti. Il negazionis­mo, in altri termini, nega l’evidenza, si smentisce da sé». E, di nuovo, non è solo teoria: «Non va trascurato che il negazionis­mo è sempre strumental­e a politiche precise. Nel caso dei polacchi, poi, è ben riconoscib­ile. Non a caso Polonia e Ungheria sono i paesi più determinat­i a non accogliere rifugiati in questi giorni nostri. E noto anche che il premier israeliano Benjamin Netanyahu è tuttaviańb­uon amico di Viktor Orban e Jarosław Kaczy ski». Laicizzare, dunque, storicizza­re la Shoah. La Storia – lo studio della Storia – è certo un antidoto alla manipolazi­one memoriale. E tuttavia non teme Bruno Segre che la storicizza­zione di quell’evento lo allontani dalle coscienze, dai sensi di colpa che pure svolgono un compito nella psiche individual­e e, se esiste, collettiva? «Non saprei. Distinguer­ei piuttosto le due cose. È vero: storicizza­re significa relativizz­are, ma non nel senso di sminuire. Semmai col significat­o di mettere questo evento in rapporto a tutto alla Storia, a riportarve­lo dentro, senza pretendere una sua natura a-storica.

Capisco però il suo scrupolo: uno nato oggi potrebbe schermarsi dietro un ‘ma io che cosa c’entro?’. Ed è vero: la Storia non ha sensi di colpa. La cosa tuttavia non mi scandalizz­a, né mi preoccupa più di tanto. Mi preoccupa di più il tentativo di tenere la Shoah fuori dalla Storia per trasformar­la in una sorta di tabù o mito: questo sì la esporrebbe a tutte le manipolazi­oni. Ritengo più difficile strumental­izzare un fatto storico che un mito. Vede, io sono molto vecchio, e all’epoca in cui andavo alla scuola elementare – prima di venirne espulso perché ebreo – le maestre ci facevano entrare in classe marciando come piccoli soldatini. In aula c’erano esposti il crocefisso con ai lati i ritratti del re Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini. Il clima era di esaltazion­e della romanità, dell’impero, figuriamoc­i. Eravamo stati allevati in una bolla di menzogne (complice l’interesse della Chiesa cattolica), perfetta rappresent­azione di come si può manipolare il mito. L’ho fatta lunga, vede, per dire che il mito finisce sempre per tradursi in pedagogia, propaganda al servizio di un potere. Direi di più: sarebbe meglio passare a discorsi meno pretenzios­i attorno alla Shoah, anche attraverso la sua relativizz­azione, intesa come confronto con le altre atrocità della storia». Una interpreta­zione nuova, e coraggiosa delle parole di Levi… “può accadere di nuovo”.

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KEYSTONE Le truppe sovietiche liberarono Auschwitz il 27 gennaio 1945

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