Davos, ‘il mainstream del presente’
Lo ‘spirito di Davos’, quello più vero ma spesso trascurato, lo rivelò nel 2010 il regista canadese James Cameron. Era il secondo summit del World Economic Forum dopo la crisi dell’autunno 2008.
Ecco cosa disse: «Ho sempre declinato gli inviti a Davos in quanto so parecchio di film ma niente di economia – disse dal palco –. Ora ho cambiato opinione: dopotutto abbiamo visto l’anno scorso che nemmeno qui nessuno sapeva niente di economia».
Battuta facile, forse. Ma che colse una verità valida per molti dei cinque decenni di incontri annuali, tra le nevi della Svizzera, di quella che si autodefinisce élite globale: la dichiarazione di auto-rilevanza e la pretesa di stabilire i temi di discussione nel mondo per l’anno a venire che coprono la realtà di previsioni sbagliate e l’inabilità di individuare le tendenze effettivamente in atto.
Autocelebrazione di follower
Un’autocelebrazione di banchieri, grandi manager, imprenditori, accademici, economisti, ministri e primi ministri che, una volta nel freddo di Davos, si mostrano più follower che leader. Quest’anno, il Forum non ha stampato mappe in carta della cittadina, per abbattere l’impronta di carbonio del summit, si suppone per i sospiri di sollievo dei Ceo arrivati nella Confederazione sugli aerei privati (pare qualcuno meno dei 309 dell’anno scorso, esclusi quelli di primi ministri e presidenti). È che la prima giornata del grande incontro, lunedì scorso, ha visto la partecipazione di Greta Thunberg e nessuno voleva apparire meno preoccupato di lei per le sorti del clima.
Vietato andare contro lo spirito dei tempi
Perché le grandi imprese, come le grandi banche, non possono, forse comprensibilmente, andare contro lo spirito dei tempi incarnato dalla ragazza svedese. E quindi si adeguano, seguono. E con ciò confermano quella che è sempre stata una verità del Forum di Davos: da lì non si vede il futuro ma ci si allinea al mainstream del presente. La storia degli scorsi 50 anni lo ha verificato spesso.
Ai World Economic Forum del 2000 e del 2001, decine di No-Global salirono dalle pianure europee verso Davos, in protesta contro la globalizzazione e il capitalismo, e si scontrarono con la polizia elvetica.
‘Chi fa business ha l’esigenza di fare fatturato e profitto e spesso questa ossessione non consente di avere una visione chiara della politica e delle politiche’
Tra i partecipanti al summit, la tendenza a cospargersi il capo di cenere fu immediata. E diffusa. Finché non prese la parola, in un dibattito, Rudi Dornbusch, uno degli economisti più brillanti, divertenti e influenti della sua epoca (scomparso nel 2002 a soli 60 anni), il quale in precedenza era stato temporaneamente bandito dal Forum per avere indisposto alcuni maggiorenti tedeschi.
Alla ricerca del consenso
«Per quale ragione – disse Dornbusch – chi sta aiutando milioni di persone a uscire dalla povertà, chi sta creando occasioni e crescita economica dovrebbe chiedere scusa? Non c’è ragione e sarebbe una cattiva idea farlo». Una rivendicazione della positività della globalizzazione che a lui era evidente ma che la maggioranza dei partecipanti al Forum non osava difendere davanti alla protesta degli attivisti No-Global. È che chi fa business ha come punto di riferimento legittimo l’esigenza di fare fatturato e profitto e molto spesso questa necessaria ossessione non consente di avere una visione chiara e non partigiana di quel che accade, impedisce una lettura lucida, o anche solo sincera, della politica e delle politiche. Il risultato è che da anni a Davos si sentono, mixati a molte analisi intelligenti, volumi di ovvietà guidate più dal bisogno di consenso che dal fine di dare un contributo a quella che viene chiamata la «conversazione globale».
I momenti alti
Nel cinquantennio di storia del summit (fu fondato da Klaus Schwab nel 1971), ci sono stati momenti alti, naturalmente. Nel 1973, quando l’incontro di Davos si chiamava European Management Symposium, Aurelio Peccei vi presentò il Club di Roma e le analisi sui «limiti della crescita»: le previsioni non si realizzarono, ma il discorso di Peccei diede il via a riflessioni sul rapporto tra crescita economica, tecnologia e ambiente. Nel 1986, i primi ministri di Grecia e Turchia – Andreas Papandreu e Turgut Ozal – si incontrarono faccia a faccia a Davos e mito vuole che così evitarono una guerra tra i due Paesi. Nel 1990, il Forum ospitò, con retorica non necessariamente appropriata, un «Breakfast con Madre Teresa di Calcutta», a segnalare che le élite del pianeta non trascuravano le sofferenze dell’umanità. Nel 1992, Nelson Mandela e il presidente sudafricano Frederik Willem de Klerk si strinsero la mano davanti al mondo, la prima volta fuori dal Sudafrica. Nel 1994, il leader palestinese Yasser Arafat e il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres condivisero il palco.
Nel 1996, il capo di Microsoft Bill Gates si avventurò in un’affermazione che probabilmente ricorda tuttora: «C’è ancora una chance per Apple: è dura dura, servirà un grande leader per fermare la spirale verso il basso»; Steve Jobs prese nota. Il 2005 fu un Forum glorioso per i partecipanti: c’erano Sharon Stone, Angelina Jolie e Bono degli U2. E così via tra incontri, rapporti da stringere o da consolidare e studi più o meno preveggenti, come quello del 2006 sull’influenza aviaria il cui «impatto sulla società potrebbe essere profondo quanto quello della peste nera del 1348 in Europa». Fino allo scrosciare di applausi per Xi Jinping, improbabile paladino del libero commercio nel 2017, e i tiepidi consensi a Donald Trump quest’anno. L’idea, stesa come una nuvola sul World Economic Forum, è quella espressa dal suo boss, Schwab nel 2012, e opposta a quella di Dornbusch dieci anni prima: i capitalisti «hanno peccato». Nonostante questa retorica, Davos non ha immaginato che i britannici potessero votare per la Brexit e gli americani per Trump, che l’onda nazionalista e protezionista si gonfiasse, che il populismo mettesse in discussione la globalizzazione e che l’economia mondiale si potesse rompere in sfere d’influenza una a egemonia americana e l’altra a egemonia cinese. L’impressione è che ogni gennaio le élite cosmopolite cambino abito e rendano ossequio a idee non loro.
Il che spiega perché a febbraio di Davos non si ricorda più nessuno.