Paolo Fresu e Chet Baker: a qualcuno piace Cool
Fra teatro e musica, la vita del grande trombettista tra colleghi, amanti e nemici
Pubblico delle grandi occasioni, sabato sera al Cinema Teatro di Chiasso, richiamato da un musicista ormai affermato come Paolo Fresu e da un nome divenuto leggenda, quello di Chet Baker. Intrigante l’idea degli autori, Laura Perini e Leo Muscato, quest’ultimo anche in cabina di regia: raccontare la disperata avventura umano/artistica di Baker in uno spettacolo che riunisce due Arti: il Teatro e la Musica, stavolta declinata al “gez” (spregiativo vocabolo coniato dal fascismo prima di decidere che quella musica d’Oltreoceano andasse del tutto proibita). Coloratissima con le sue insegne al neon, la multifunzionale scena disegnata da Andrea Belli vede Fresu con i suoi complici (Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso) su un palchetto leggermente rialzato da dove si domina il via vai di amici, colleghi, amanti e nemici che hanno incrociato Baker nel suo peregrinare dalla natia Oklahoma alla California, da New York all’Europa. Una sfilata di voci, testimonianze e personaggi che entrano alternativamente da due porticine alle estremità del palcoscenico, si accomodano su una gigantesca poltrona rosso fuoco, oppure si avvicinano al bancone del jazz club voluto appunto dallo scenografo Belli.
S’inizia da un quadretto familiare non troppo edificante: papà jazzista mancato, frustrato e sempre in bolletta, mamma perennemente brontolona. È forse per sfuggire a questa realtà che Chet si arruola nell’esercito a soli sedici anni. “Suonerò nella banda del mio battaglione e avrò molto tempo da dedicare alla mia musica”: è una delle sue tante idee, ottime sulla carta e che purtroppo si riveleranno fallimentari. Per una lieve mancanza e soprattutto per le sue escandescenze, Chet finirà in un ospedale psichiatrico militare, ambientino non proprio ospitale. Inizia poi la sfilata di chi ha avuto a che fare con il jazzista Baker. Da Charlie Parker, che lo volle giovanissimo nella sua band, a Gerry Mulligan, il quale gli si propone anche come manager. Il sodalizio tra i due è di breve durata, il tempo strettamente necessario per giungere al “West Coast Sound” (versione bianca del cool jazz) e all’incontro di Chet con le droghe pesanti. E proprio un’overdose di eroina stroncherà vita e carriera del 24enne pianista Dick Twardzik, a Parigi, tappa di una tournée che sin lì si stava rivelando trionfale per Baker. Il rimorso per questa morte che Chet – con un intervento più rapido e deciso – avrebbe forse potuto evitare, suggeriscono gli autori, lo perseguiterà per sempre. Bravi gli interpreti, ottima la musica, già lodata la scenografia. Il problema di “Tempo di Chet” sta nello sviluppo narrativo dello spettacolo: dopo ogni speech (talvolta condotto a ritmi di be bop tali da sfiorare lo scioglilingua!), ecco le note di Fresu, che rubano la scena agli attori; e alla fine della loro performance i musicisti si guadagnano il meritato applauso. Il pathos, così come il crescendo drammatico creato dai nove teatranti – e la vita di Chet ne conta tanti, di drammi – vengono interrotti, creando una cesura dopo l’altra, e ciò rende difficile tornare all’atmosfera e alle emozioni appena vissute in platea. Inoltre, il numero esorbitante di personaggi fa sì che qualcuno dei loro “siparietti”
si avvicini pericolosamente al didascalismo. Ciononostante, alla fine la troupe è stata più volte richiamata sul palco dal pubblico soddisfatto. E anche il vostro cronista è rincasato con una bella convinzione: il suono che esce da tromba e flicorno di Paolo Fresu si avvicina sempre più a quella “inconfondibilità” raggiunta solo da alcuni Grandissimi. Satchmo, Bird, Dizzie, Miles e naturalmente Chet Baker!