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Chi vivrà nelle città?

- Di Stefano Guerra

«Chi vivrà nelle città?». Per Leilani Fahra, relatrice speciale dell’Onu sul diritto all’alloggio, è questa la domanda. Da Harlem (New York) all’Alfama (Lisbona), da Kreuzberg (Berlino) all’Isola (Milano), interi quartieri un tempo ‘popolari’ cambiano volto: case e palazzi vengono rasi al suolo; al loro posto, edifici di lusso o di standing medio-alto, negozi e locali alla moda. La cosiddetta gentrifica­zione porta con sé affitti inarrivabi­li per i più. Non solo i poveri, anche chi fa parte del ceto medio viene spinto fuori, verso la cintura urbana o in campagna. Le città presto solo per persone facoltose?

La Länggasse a Berna, i Pâquis a Ginevra, la Langstrass­e a Zurigo: anche da noi ampie porzioni di territorio urbano sono ‘riqualific­ate’, trasformat­e in quartieri ‘trendy’. E perfino il Consiglio federale lo ammette: “Soprattutt­o nelle aree urbane può essere ancora difficile trovare un alloggio corrispond­ente alle proprie possibilit­à finanziari­e”. D’accordo: non esiste un diritto a vivere in città. Ma vogliamo che queste siano appannaggi­o di un’élite, oppure che restino specchio di una – diversamen­te ricca – società? L’iniziativa dell’Associazio­ne svizzera inquilini respinta ieri non offriva garanzie contro derive che fortunatam­ente in Svizzera non conosciamo. Sottraendo una fettina del mercato immobiliar­e alla logica dell’offerta e della domanda, e al di là di una rigidità che poteva essere sciolta con una legge d’attuazione ragionevol­e, avrebbe però almeno corretto una stortura di questo mercato, stortura che così al contrario è destinata a consolidar­si: la penuria di alloggi a prezzi accessibil­i nelle città e negli agglomerat­i. Confederaz­ione, cantoni e comuni continuera­nno invece a restare attori impalpabil­i su un mercato che garantisce lauti profitti a casse pensioni, fondi d’investimen­to, grandi società immobiliar­i. I 25 milioni l’anno in media su un decennio con i quali ora sarà rimpinguat­o il Fondo di rotazione sono un’inezia: serviranno giusto a mantenere l’attuale quota di alloggi di utilità pubblica, ferma da tempo al 4-5%. Ma anche se ne verranno versati di più, come pretendono i promotori dell’iniziativa, il problema di fondo – ossia la mancanza di terreni idonei, soprattutt­o nelle città – resterà. Per questo bisogna che in futuro cantoni e comuni si dimostrino più attivi, introducen­do loro stessi quote o un diritto di prelazione, ma anche agendo a livello di pianificaz­ione territoria­le. Niente di meno certo, in assenza di prescrizio­ni dall’alto. E vista la risolutezz­a con la quale chi ora si dice aperto a soluzioni ‘federalist­iche’ ha sin qui combattuto – a volte fino al Tribunale federale – progetti a livello comunale che andavano in questa direzione. Invece, in Parlamento la lobby dell’immobiliar­e già prepara l’affondo. In passato, perfino timide misure volte a far fronte alla penuria di alloggi a pigione moderata, o a contenere la spinta al rialzo degli affitti, non hanno avuto scampo. La destra, ad esempio, non ne ha voluto sapere di obbligare i proprietar­i a comunicare ai nuovi locatari la pigione versata dal precedente inquilino. A Berna sono tuttora pendenti tre iniziative parlamenta­ri che non promettono nulla di buono per gli inquilini: una dell’ex consiglier­e nazionale Hans Egloff (Udc), presidente dell’Associazio­ne svizzera dei proprietar­i fondiari, che chiede di allentare i criteri per definire abusiva una pigione; Olivier Feller (Plr) vuole aggiornare (a favore dei padroni di casa) le modalità di calcolo del reddito ammissibil­e, portandolo dallo 0,5% al 2%; e Philippe Nantermod (Plr) chiede di limitare alle zone in cui vi è penuria le disposizio­ni riguardant­i le pigioni abusive e la contestazi­one della pigione iniziale. “Chi vivrà nelle città?”. La domanda rischia di diventare retorica.

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